L’Intrusa è un film che pone una domanda complicatissima da risolvere: cosa fare quando in un centro in cui i bambini sono tenuti in un ambiente libero da camorre e ingerenze malavitose, in cui possono fare attività insieme, fare comunità e imparare l’opposto di quello che gli insegnerebbe la strada, arrivano una madre e una figlia rimaste sole dopo l’arresto dell’uomo di casa, un killer della camorra? Le due hanno bisogno di aiuto ma non lo vogliono chiedere, hanno anzi un atteggiamento scostante e rabbioso: vanno cacciate per evitare che attirino proprio quelle persone che a fatica sono tenute fuori? Vanno aiutate mettendo a rischio tutte le altre persone che invece frequentano quei posti per evitare la malavita?

Alla domanda deve rispondere Giovanna che in quel centro ci lavora, ma anche i genitori dei bambini che lo frequentano, come il preside della scuola. È una domanda con molte implicazioni e il lavoro di L’Intrusa è proprio raccontarle e mettere in difficoltà lo spettatore nel tentativo naturale di prendere una posizione.
A girarlo e scriverlo è stato Leonardo Di Costanzo che qualche anno fa si era fatto notare al Festival di Venezia con L’Intervallo e che con questo film appena uscito nelle sale italiane è andato alla Quinzaine Des Realisateurs di Cannes.

Come si fa a girare un film in cui non si sta con nessuno dei personaggi e in cui si cerca di fare in modo che nemmeno il pubblico possa schierarsi con sicurezza?

Il problema di avere una posizione terza ce l’hai sempre, non solo in questo film. Considera però che io vengo dal documentario e tutti i miei documentari hanno questa posizione, che è complicata da tenere”.

Sei in dovere di non prendere posizione e comprendere tutti, ma è anche evidente che lavorandoci molto su questa storia ti sarai fatto un’idea più strutturata di chiunque altro. Come la vedi?

Il mio punto di vista è quello di Giovanna, la persona che deve risolvere l’impiccio e capire che fare con questa mamma e questa bambina, e non è un caso”.

Questa storia la si poteva raccontare dal punto di vista opposto, da quello della donna di un uomo della camorra che non sa che fare?

Sì e sarebbe stato molto più semplice! Ma a me interessava raccontare il punto di vista di Giovanna proprio, è quello che è importante. Raccontare la motivazione dei buoni senza sembrare melenso è molto più complicato, il dilemma del buono è difficile. Invece raccontare il dilemma del cattivo è più affascinante, il cattivo che si redime l’abbiamo visto mille volte. Meno raccontato è il dilemma di questi eroi della contemporaneità. Persone che occupano un ruolo sempre maggiore, se pensi che lo stato si ritira dall’assistenza e loro vanno a coprire un bisogno enorme, eppure non è raccontato il loro sforzo di creare comunità”.

Un film come questo, fatto di un dilemma, può durare in eterno. Come hai scelto quando finirlo? Come hai deciso i limiti in cui confinare la narrazione?

È sempre stato così come lo vedi. Per le persone di cui il film parla questi conflitti sono all’ordine del giorno. Oggi è questo, domani sarà un altro. E se vuoi porre problemi e non soluzioni (che tanto non ho) devi confinare il tutto in un tempo stretto, perché altrimenti le soluzioni si trovano. Io non volevo arrivarci alla fase in cui una soluzione si trova, volevo mostrare l’esigenza di prendere decisioni in un lasso di tempo stretto, perché lì nasce il dilemma”.

Come già in L’Intervallo qui il luogo è importantissimo ma non lo esplori come faceva quel film lì, qui è lasciato di sfondo ed è meno clamoroso. Come lo hai scelto?

È un luogo che non esiste, l’abbiamo scritto e arredato noi, quello è un posto che conosco perché dietro ci sta una scuola di cinema di periferia che da un paio d’anni l’Arci Movie ha creato e con cui collaboro. Però l’abbiamo scenografato, ci abbiamo messo i disegni e tutto il resto

Ne hai modificato lo spazio e le distanze anche solo con il montaggio?

No, tutto esiste come lo vedi. È come se fosse davvero uno spazio teatrale, questo è quello che volevo, ricreare questa cosa qua. Abbiamo fatto anche delle modifiche alla sceneggiatura per adattarla a quello spazio. Del resto è un po’ come L’Intervallo”.

Sì ma L’Intervallo aveva quasi la perversione di esplorarlo tutto dalla cima al fondo il suo spazio.

Sì qui è tutto più evidente, mentre in L’Intervallo attraversare lo spazio è la ricerca dei protagonisti della loro infanzia negata, qui invece il tema è l’imposizione del dramma morale che accade lì in quel luogo, che diventa il teatro in cui i differenti elementi e le parti in gioco discutono di cose che devono accadere lì dentro“.

Di nuovo nessun attore professionista. Cosa cerchi? Delle facce o dei vissuti?

Io ho proprio delle difficoltà a lavorare con gli attori. Prima o poi la supererò spero. Il punto è che un attore si porta dietro tutta la storia dei film che ha fatto e io prima dovrei distruggere quell’immagine nella testa dello spettatore. Inoltre mettici che per questo film tutti vengono da quella realtà, sono stati parte di quelle storie lì. I personaggi che gli ho proposto con la finzione loro li conoscono e spesso mi dicevano: “Ma questa è la storia mia! Devo fare io la protagonista!”.”.

Come fai con il copione? Puoi tenerlo rigido quando lavori con attori non professionisti o deve essere malleabile?

È molto rigido ma lo scrivo con loro fino a poco prima delle riprese. Faccio molte prove e lavoro molto, molto prima, almeno sei mesi prima in questo caso. Lavoriamo come si fa a teatro, così che sul set ognuno di loro abbia avuto modo di riflettere sul personaggio e possa fare proposte che poi diventano parte della sceneggiatura. Basta pensare che lo script nasce in italiano ma poi va tradotto in napoletano e già lì c’è un gran margine di adattamento”.

C’è qualcosa nel film che è capitato che tu non avresti mai potuto immaginare e invece l’hanno creato gli attori?

Sì ed è stato bellissimo. Quando Rita, la bambina, va a giocare con gli altri bambini per la prima volta ed è introdotta nella ciclofficina, arrivano i ragazzi e uno di questi si presenta ma lei non lo guarda e non gli dà la mano. Sono impazzito, perché lei aveva così interiorizzato il personaggio da aver aggiunto il suo, aveva continuato a scriverlo”.

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