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Mediterraneo e dintorni

Si riapre in Iraq il braccio di ferro tra Washington e Tehran

L’amministrazione Trump e il governo Netanyahu aumentano sempre più il livello della contrapposizione verbale e militare con l’Iran, ma è in Iraq che si potrebbe aprire un nuovo fronte nella sfida per gli equilibri di potenza a livello regionale.

È di pochi giorni fa l’annuncio del nuovo segretario di stato americano Mike Pompeo, che in un discorso alla Heritage Foundation ha stilato una lista di dodici condizioni che il governo iraniano dovrebbe rapidamente soddisfare per evitare un ulteriore inasprimento delle sanzioni dopo il ritiro unilaterale degli USA dal JCPOA, l’accordo quadro sul nucleare iraniano.

L’amministrazione Trump e il governo Netanyahu aumentano sempre più il livello della contrapposizione verbale e militare
con l’Iran, ma è in Iraq che si potrebbe aprire un nuovo fronte nella sfida per gli equilibri di potenza a livello regionale.

I risultati definitivi delle elezioni parlamentari irachene dello scorso 12 maggio sono una complicazione sia per Washington sia per Tehran. A vincere, per quanto con un’esigua maggioranza di 54 seggi su 329, è stata la lista denominata “Quelli che si muovono” (Sā’irūn), un’alleanza apparentemente incongrua tra il partito comunista e il movimento del religioso sciita Muqtada al-Sadr, già a capo di un’insurrezione armata contro le truppe americane tra il 2004 e il 2008.

Uno dei volti di questa lista è quello di Suhad al-Khatib, un’insegnante e attivista per i diritti delle donne che si è candidata nella città santa sciita di Najaf. L’immagine di lei, vestita con un tradizionale velo mentre parla da un palco con alle spalle una bandiera rossa con falce e martello, è forse una delle sintesi più efficaci di tutta la campagna elettorale. Gli ambienti clericali sciiti, di cui al-Sadr è uno degli esponenti più popolari e radicati nel paese, hanno sempre tradizionalmente combattuto il partito comunista. Prima di essere silenziati con la forza dal regime baathista, i comunisti avevano svolto un ruolo centrale nella vita politica locale, soprattutto nel corso degli anni Cinquanta, espandendosi soprattutto nelle periferie urbane e tra le classi popolari sciite più povere e marginalizzate.

La strana alleanza

Da cosa nasce l’attuale alleanza tra un chierico orgogliosamente religioso e un partito orgogliosamente marxista? Un primo motivo sta nella comune opposizione al primo ministro uscente Haydar al-‘Abadi (in carica dal 2014) e a quello prima di lui, Nuri al-Maliki (in carica dal 2006 al 2014). Tutti e due sono politici navigati, che hanno cercato di barcamenarsi tra la necessità di non urtare né gli interessi americani né quelli iraniani. Tutti e due provengono dal partito della Chiamata islamica (al-Da’wa), in teoria di ispirazione religiosa sciita, ma hanno sostenuto un approccio pragmatico, cercando di blandire altri partiti e dignitari locali. Tutti e due sono stati toccati da accuse di corruzione, malgoverno e favoritismi nei confronti della componente sciita che ne hanno molto intaccato la reputazione.

Il primo ministro uscente faceva conto di intestarsi il successo delle operazioni militari che hanno inflitto pesanti sconfitte al cosiddetto Stato islamico e portato alla riconquista di Mosul e delle altre zone del paese cadute nel 2014 sotto il controllo del
cosiddetto califfo al-Baghdadi. La sua lista, chiamata non a caso “Vittoria” (al-Nasr), ha ottenuto però solo 42 seggi. Peggio ancora è andata alla coalizione “Stato di diritto” dell’ex primo ministro al-Maliki che ne ha vinti solo 25. L’Iran ha appoggiato la lista “Conquista” (Fatah), legata alle Brigate di mobilitazione popolare che, sostenute dalle forze speciali al-Quds guidate dal generale iraniano Qasem Suleimani, hanno giocato un ruolo di primo piano nella campagna militare contro il cosiddetto Stato islamico (ISIS). La lista filoiraniana ha ottenuto 47 seggi, facendo registrare un risultato omogeneo in tutte le aree del paese a maggioranza sciita. La percezione di un’eccessiva ingerenza iraniana nelle vicende politiche irachene è il secondo motivo che ha contribuito a saldare l’alleanza tra i sadristi e i comunisti, che hanno aumentato i loro consensi usando parole d’ordine che in Italia si potrebbero definire “sovraniste”.

Non meno frammentaria è la situazione politica nel resto del paese. Nelle aree a maggioranza sunnita si sono imposte liste locali e clientelari che rendono assai improbabile concepire una rappresentanza unitaria dentro il nuovo parlamento.

I curdi

Si è votato regolarmente anche nella regione autonoma del Kurdistan iracheno, dopo il referendum per l’indipendenza dello scorso 25 settembre. Come noto, pur avendo avuto una schiacciante maggioranza di consensi, il referendum secessionista si è rivelato un clamoroso boomerang, suscitando la reazione del governo di Baghdad, che ha riconquistato militarmente la provincia contesa di Kirkuk e ottenuto il congelamento a tempo indeterminato degli esiti del referendum.

I due maggiori partiti curdi, che dopo una lunga guerra intestina si sono spartiti il governo regionale, hanno conservato le proprie posizioni nonostante l’uscita di scena dei loro capi storici. Masud Barzani, capo del Partito democratico del Kurdistan, si è dimesso da presidente regionale (dopo dodici anni di mandato) a causa del fallimento della scommessa referendaria. Jalal Talabani, capo dell’Unione patriottica del Kurdistan e presidente dell’Iraq dal 2006 al 2014, è morto a pochi giorni di distanza dal referendum.

PDK e UPK hanno contenuto la crescita delle liste curde alternative, ma sono divise sulle strategie politiche da tenere nel rapporto col governo centrale di Baghdad e soprattutto sulle alleanze internazionali, con la UPK più propensa a una linea filoiraniana e il PDK che preferisce coltivare buoni rapporti con gli Stati Uniti e la Turchia (che a sua volta sostiene la fazione di
Barzani contro il PKK di Abdullah Öcalan).

Il nuovo governo

In questo scenario è difficile prevedere come si potrà comporre il nuovo governo. Il modello consociativo non è stato messo in discussione e si prospetta dunque la necessità di un’ampia coalizione che non lasci fuori i diversi segmenti politici, religiosi e regionali. È possibile che, in fin dei conti, l’attuale sistema di potere resti in piedi, ma i risultati del voto, pur segnato da una bassa affluenza, mandano un segnale di forte irritazione nei confronti dei due paesi che più hanno cercato di segnare la politica irachena in questi ultimi anni.

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