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Giorno della memoria

“La nostra gita scolastica a Dachau: il viaggio che ha cambiato tutti noi”

Il reportage della classe 5^A del Liceo Scientifico Lussana nato dal toccante viaggio d'istruzione al campo di concentramento di Dachau

INTRODUZIONE

“Al fondo del crepaccio dei tempi
Nel favo del ghiaccio attende,
cristallo di fiato,
la tua non intaccabile testimonianza.”

Celan

La Shoah è un evento assoluto della storia che impone il dovere della memoria come ritualizzazione del passato nel presente.
Rimemorazione come dialogo silenzioso che è pensiero.
Pensare e fare memoria delle cose, per orientarsi nella “leggibilità del modo”, per raggiungere la profondità della condivisione, per muoversi nella dimensione della responsabilità.
Silenzio – parola, indicibilità – grido, oblio – evocazione, “geblieben ist die Sprache”, scrivere una poesia dopo Auschwitz “non è un atto di barbarie” ma bisognerà dire, anche se “il canto è spezzato”, dire per sapere e far sapere, custodire per testimoniare del male radicale dell’umano quando sfida il pensiero.
Non rinnegare il ricordo dell’orrore per non dimenticare e credere che ci sarà sempre chi, questa parola, custode della memoria, pensa e medita.

Laura Lavore

ARTICOLO/REPORTAGE

“Chiunque ascolti un testimone diventa un testimone.
Elie Wiesel, testimone A-7713

Durante la visita d’istruzione a Monaco di Baviera, noi, classe 5A del Liceo Scientifico Lussana, abbiamo visitato il campo di concentramento di Dachau. All’interno della settimana, quella tappa ha rappresentato un momento di raccoglimento e riflessione molto toccante, che ci ha portati, per una mattina, ad un livello di maggiore profondità dell’esperienza.

La visita al campo era stata preparata nelle settimane precedenti tramite un lavoro di approfondimento e di consultazione di diversi documenti storiografici e filosofici, insieme a testimonianze dirette. Il titolo che è stato dato al percorso è “La testimonianza e i luoghi della testimonianza”. Prima di camminare sul suolo che, meno di un secolo fa, è diventato sede di una delle più grandi atrocità della nostra storia, abbiamo voluto ascoltare le parole delle vittime e capire, quanto più possibile, il motivo della necessità della memoria.

Le testimonianze ci hanno raccontato gli orrori della deportazione e la crudeltà della spersonalizzazione messa in atto contro i detenuti dei Lager. Obiettivo ultimo delle SS nei campi era, prima della “soluzione finale” dell’eliminazione fisica, l’annientamento della persona: la perdita del nome e della propria identità, di ogni proprietà ed, infine, dell’umanità. Tra le riflessioni più significative vi sono quelle del filosofo Jean Amery, di origini ebraiche, e dunque costretto all’esilio forzato. Le leggi razziali e il dilagare del feroce antisemitismo lo avevano relegato alla condizione di uomo senza più patria, senza Heimat. Tale perdita, però, comportava un profondo e doloroso processo di auto-estraniazione: essere senza Heimat significava non possedere denaro né passaporto né passato né storia. Amery non possedeva più nulla e non disponeva di alcun rifugio. Nel suo “Intellettuale ad Auschwitz”, egli si chiede di quanta Heimat abbia bisogno l’uomo. Ne risulta che l’uomo necessita di sicurezza, “ha bisogno di Heimat quanto meno può portarne via con sé”. I nazisti non si limitarono a infliggere mera violenza fisica e psicologica, ma, privando gli ebrei di una patria, li resero “vittime della mancanza di ordine, di turbamenti, della dispersione”, come testimonia Amery.
Cercare di capire razionalmente le cause che portarono alla Shoah è complesso e allo stesso tempo fondamentale. Tra le pagine più celebri della storiografia dell’Olocausto, vi è “Olocausto e Modernità” di Zygmunt Bauman. Egli sottolineò l’importanza della testimonianza, in quanto il nazismo fu un prodotto della modernità in cui viviamo ancora oggi. L’età contemporanea quindi non ha saputo, nonostante secoli e secoli di evoluzione, arginare il dilagare del razzismo e quelle stesse istituzioni che resero possibile la Shoah sono pervenute ai giorni nostri. Il genocidio degli Ebrei fu unico nella storia per la sua modernità: Hitler sostituì la fredda burocrazia alla ferocia della folla (come accadeva nei pogrom tradizionali), il sistematico raggiungimento dell’obiettivo della “società perfetta” alle emozioni e lo sterminio divenne normale routine. Bauman utilizza la famosa metafora del giardiniere: il nazismo voleva estirpare tutti gli esseri umano ritenuti “inferiori” per ottenere la purezza della razza, così come un giardiniere elimina le erbacce per avere un giardino ordinato. È questa crudeltà fredda e disumana che, in quanto propria del fenomeno dell’uomo moderno, ci destabilizza, deve spaventarci e indurre a ricordare.

Visitare un luogo che conserva una tale testimonianza inevitabilmente suscita domande, che spesso rimangono senza risposta. Filosofi e teologi ebraici e tedeschi si sono a lungo interrogati, dopo la Shoah, riguardo all’esistenza di Dio, al suo ruolo e alla funzione della religione nella strage di milioni di innocenti: “dov’era dio ad Auschwitz?”. Una delle posizioni più celebri è quella del filosofo Jonas. Egli cercò di individuare la ragione del mancato intervento di Dio nell’Olocausto. Dio è definito da tre attributi: bontà, onnipotenza e comprensibilità. Il concetto di bontà è intrinseco a quello di Dio, da cui non può essere separato, ed allo stesso modo la possibilità dell’uomo di conoscere Dio è, nell’Ebraismo, religione rivelata, assolutamente necessaria. Ne consegue che il Dio di Auschwitz non dovesse essere allora onnipotente.
Jonas afferma che Dio restò muto davanti ad Auschwitz, non intervenne, perché non poteva. Nell’atto della creazione Dio ha dato tutto all’uomo, anche la libertà e il potere di autodeterminarsi, e non gli è rimasto nulla da darci. Dio rinunciò alla sua onnipotenza affinché noi potessimo essere completamente liberi. Ne è una conseguenza diretta il principio di responsabilità dell’uomo del Male nel mondo, dei genocidi e della violenza.
Tutti noi nel momento della visita abbiamo colto l’intensità del momento. Da una parte, è stato inevitabile essere sopraffatti dall’emozione delle nude stanze dove migliaia di cadaveri erano stati ammassati; contemporaneamente, sono nati anche molti spunti di riflessione. Tutti gli studenti, sia che avessero già visitato un Lager o meno, sono stati d’accordo sull’intensità dell’esperienza: nonostante qualsiasi conoscenza più o meno approfondita dell’Olocausto, la testimonianza oculare ha un valore aggiunto e grande potenzialità di sensibilizzazione. Inoltre, molti che avevano già visto il campo di Dachau, hanno affermato che la visita ha avuto questa volta un significato molto più profondo, alla luce sia di maggiore maturità sia del lavoro svolto in classe.
Un’altra impressione di una studentessa della classe è stato lo stupore nell’assistere a grandi comitive di studenti entrare nel campo, invece, con leggerezza. È sicuramente molto triste vedere che un momento che riveste un così alto compito civile e culturale, quale quello della testimonianza, sia sminuito da scolaresche forse poco preparate.

La memoria deve essere pilastro della nostra società, affinché prendiamo coscienza del Male a cui la modernità ha portato nel secolo scorso e costruiamo una società migliore, dove l’Olocausto ed ogni tipo di discriminazione razziale non possano ripetersi. L’augurio per il futuro non si limita alla testimonianza, pur fondamentale, dei periodi più cupi della storia, ma si apre alla speranza nel progresso civile, che possa salvaguardare sempre i diritti della persona e tutelare la libertà di ognuno.

Un esempio di attuazione di tale messaggio di speranza è la legislazione, quando svolge un ruolo positivo. Tra le macerie dell’Europa, all’indomani della persecuzione razziale del secondo conflitto mondiale, furono infatti la necessità di pace, uguaglianza e libertà, ad ispirare la Dichiarazione Universale dei Diritti della Persona, adottata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.

Le Nazioni si impegnarono a riconoscere l’ontologica dignità dell’uomo, che prescinde da ogni nazionalità, etnia ed orientamento politico: dalla società massificata occorreva far emergere di nuovo l’individuo ed il suo intrinseco valore. Gli uomini della metà del Novecento dovettero ricordarsi dell’Umanesimo e dei suoi principi, che permearono la letteratura e la filosofia fino al XVIII secolo. Era il 1788 quando Kant, nella Critica alla Ragion Pratica, scriveva che la morale impone che l’uomo sia sempre considerato come fine e mai come mezzo: l’uomo, in virtù della sua razionalità e della sua personalità, è innalzato al di sopra della condizione di ferinità e, essendo strutturalmente aperto al mondo intellegibile, partecipa della sua libertà. Il fine dell’esistenza dell’uomo kantiano va all’infinito: certo non sarebbe mai potuto essere privato della sua dignità, del suo valore, rinchiuso in un campo di concentramento.

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