Renzi è antipatico ma è l’unico che può far vivere il Pd nel XXI secolo

di Giuseppe Turani
Pubblicato il 9 Luglio 2018 - 11:41 OLTRE 6 MESI FA
Renzi è antipatico ma...nella foto: Matteo Renzi durante l'assemblea nazionale del Partito Democratico, Roma 07 Luglio 2018  ANSA / LUIGI MISTRULLI

Renzi è antipatico ma…nella foto: Matteo Renzi durante l’assemblea nazionale del Partito Democratico, Roma 07 Luglio 2018
ANSA / LUIGI MISTRULLI

Renzi è antipatico ma è l’unico che può far vivere il Pd nel XXI secolo, sostiene Giuseppe Turani in questo articolo pubblicato anche su Uomini & BusinessFabio Colasanti è un militante del Pd con vasta esperienza internazionale[App di Blitzquotidiano, gratis, clicca qui,- Ladyblitz clicca qui –Cronaca Oggi, App on Google Play],  che ha lavorato a lungo nelle istituzioni europee, non è in cerca di notorietà o di poltrone. Vorrebbe solo un Pd migliore e più ricco di contenuti, più presente. Di recente ha reso pubblico uno scritto in cui contesta che Matteo Renzi sia la persona adatta a guidare il Pd nella prossima tornata.

Solo per aver pubblicato questo scritto nella mia bacheca su FB, mi sono preso quasi del traditore da parte di fan renziani, di quelli che al seguito di Matteo andrebbero anche all’inferno senza scorte d’acqua o nel deserto senza cammello.

Qui ripropongo lo scritto di Colasanti (perché va letto) e tento qualche osservazione.

Ecco il testo di Colasanti:

“Ieri sera ho ascoltato l’intervento di Matteo Renzi all’assemblea del PD. Non mi è piaciuto e ha sottolineato le ragioni per le quali il Partito Democratico non è riuscito e non riesce a superare le sue divisioni.

Prima di tutto l’intervento è stato scorretto per i suoi tempi. In un’assemblea con tantissimi iscritti a parlare e dove tanti non hanno potuto prendere la parola per mancanza di tempo non è giustificato che una persona sia lasciata parlare per 47 minuti.

L’intervento ha confermato il carattere malsano delle spaccature attuali del PD attraverso il comportamento di tanti suoi sostenitori presenti (non dimentichiamo che, grazie allo statuto del PD, la maggioranza dell’Assemblea nazionale è formata da persone nominate da Matteo Renzi). Il comportamento di troppi di questi fan è stato degno del concerto di una banda rock o delle curve di uno stadio. Non riesco a capire come un numero così alto di persone possano abdicare alle proprie capacità analitiche e scelgano di sostituirle con la fede in una persona. La personalizzazione della politica che vediamo in tanti paesi è un segno dello scadimento del dibattito democratico.

Il discorso lunghissimo di Matteo Renzi ha avuto toni da campagna elettorale interna. È stato una ripetizione senza novità di quanto ha sempre detto. Al di là di qualche dettaglio tecnico supplementare (47 minuti sono parecchio tempo) non c’è stato un solo elemento politico nuovo. La lista di sbagli che ha elencato conferma che – nella sua visione della storia recente – non ci sono errori imputabili al suo governo, semmai ai consigli degli altri (ai consigli e alle azioni di Paolo Gentiloni). Ha difeso senza esitazioni il suo intervento televisivo sul blocco di ogni contatto con il M5S. Le sconfitte recenti sono dovute alle discussioni interne, ai commentatori che si sono permessi di criticare alcune azioni del suo governo e alle campagne di fake news sui social networks.

Ha annunciato la sua intenzione di battersi (non è chiaro se anche presentandosi di nuovo come candidato segretario o per interposta persona) per ritornare ufficialmente alla guida del Partito Democratico. Si è anche dichiarato sicuro di vincere di nuovo.

Io sono per un PD che dia le risposte che la sinistra europea fatica a trovare. Questo significa sviluppare politiche che diano delle risposte alle tante sfide del nostro tempo e alle preoccupazioni di tanti cittadini. Questo significa sviluppare politiche moderne che non possono ispirarsi dal passato e che devono combinare il sostegno all’economia di mercato (minacciata oggi dal ritorno allo statalismo del M5S) con delle dosi molto maggiori di quelle attuali di solidarietà. Il modello che ci deve ispirare nelle scelte fondamentali è quello dei paesi scandinavi e nord-europei. Al tempo stesso serve una maggior dose di realismo. Nel caso difficile dell’immigrazione il ministro Minniti ha fornito il miglior compromesso che io abbia finora visto. Servirebbe anche molto più realismo per quanto riguarda l’integrazione europea.

Riorientare in questo senso le politiche del Partito Democratico (e quelle degli altri partiti del PSE) richiede un grosso, lungo e difficile dibattito interno. Non mi sembra sbagliato il rinvio dell’elezione del nuovo segretario alla primavera prossima. Ma questo ha un senso solo se oggi si lancia immediatamente un dibattito sugli obiettivi dell’azione politica del PD (i suoi valori sono ben elencati nel suo “Manifesto”) e sulla sua organizzazione. Purtroppo non vedo molte iniziative in questo senso. Durante le prossime feste dell’Unità si dovrebbero già avere dei testi e delle proposte da discutere. Come ha ricordato Roberto Giachetti, purtroppo l’unico documento disponibile che affronti i temi di fondo è finora quello di Carlo Calenda. Ne servono molti di più e anche con un carattere più aperto (che indichino le domande alle quali si deve rispondere, ma non ancora le risposte). Sapranno Maurizio Martina e la segreteria lanciare questo dibattito?

Ma per avere questo dibattito nel Partito Democratico, oggi e nel futuro, abbiamo soprattutto bisogno di una dirigenza inclusiva, che incoraggi le discussioni, che permetta a tutti di esprimersi e che permetta poi a dei veri congressi o conferenze programmatiche di votare su di un numero ragionevole di opzioni. Solo un vero dibattito democratico interno potrà permettere di superare le divisioni. Se le decisioni saranno prese in maniera aperta, partecipativa e democratica (votazioni da parte di organi dirigenti espressione della base del partito), il dissenso contro le decisioni prese alla maggioranza ritornerà in limiti normali. Bisognerà anche riflettere a delle modifiche dello Statuto del PD, soprattutto per quanto riguarda la composizione dei suoi organi interni.

Nonostante le sue tante qualità, Matteo Renzi ha un carattere che non lo porta a poter offrire (o incoraggiare) questa leadership inclusiva. Non solo non penso sarebbe la scelta giusta per il segretario da eleggere nel 2019. Ho paura che la sua azione politica, nelle forme attuali, possa oggettivamente ostacolare la necessaria trasformazione del Partito Democratico.”

E qui c’è la mia chiosa.

Matteo Renzi non è Walter Veltroni. Non ha un carattere così pacioso che alla fine tutti (dal parroco in avanti) sono d’accordo nel ritenerlo un bravo ragazzo e un padre della patria. Matteo è spigoloso, urticante, probabilmente (a molti) anche antipatico. E’ un bullo fiorentino, che ama parlare e sentirsi parlare. Insomma, ha dei difetti.

Ma, se il Pd di oggi è all’incirca quello che è, e cioè lontano dalle polverose ideologie novecentesche, lo si deve proprio a Renzi, al suo essere un bullo ambizioso, con zero rispetto per i sacri padri del Pd e per una tradizione ormai ossificata e paralizzante.

Di questo gli va dato atto. E mi spiego meglio: oggi il Pd è quello che è perché sulla sua strada ha incontrato Matteo. Senza uno come lui, bullo e iconoclasta, saremmo ancora qui, con Bersani e D’Alema, a interrogarci su cose senza senso e ormai superate dalla storia.

Ma, si dice, Matteo non ha le qualità per coinvolgere un vero gruppo dirigente. Queste supposte qualità non le aveva nemmeno Lenin, che non sapeva parlare in pubblico, che era antipatico a tutti e che francamente era più che un dittatore. Altri erano meglio di lui. Ma il grande architetto della rivoluzione d’ottobre è stato Lenin. Perché era il più intelligente, solo per questo.

Non so (non posso saperlo) se Matteo sia il più intelligente del Pd (altri forse hanno più testa). Ma lui ha un’intuizione politica straordinaria. E’ stato il primo a capire che il Novecento andava pensionato, e per sempre. E’ stato il primo a capire che senza la distruzione della società consociativa questo paese non va da nessuna parte (poi la grande riforma è stata scritta un po’ con i piedi). E, ancora oggi, battuto alle elezioni, dimesso da tutto, sembra essere l’unico a aver capito che il nemico è il populismo in tutte le sue varianti. E contro il quale ci può essere solo la guerra frontale e totale.

Sarà un caso, ma mentre il vertice del Pd traccheggia, balbetta, si perde nei suoi soliti distinguo, chi attacca senza mezze parole i 5 stelle è Berlusconi. La spiegazione non è difficile: tre quarti dell’attuale gruppo dirigente del Pd insegue un suo piccolo, miserabile, disegno politicista, e cioè separare Salvini da Di Maio e poi fare maggioranza con Di Maio, cioè con il capo supposto di un Movimento extra-costituzionale, che ci ripropone ricette degli anni Cinquanta (che lui crede invece grandi novità).

Matteo, che ha commesso fantastici errori nella sua breve carriera come leader nazionale (la commissione parlamentare sulle banche è servita solo a rosolare quella brava persona di MEB e lo stesso Pd), ancora una volta è però quello che ha l’intuizione giusta: i 5 stelle sono altro da noi, altro da una società moderna, vanno combattuti, rappresentano il populismo più spregevole fra quelli presenti in Europa. Sono avvelenatori di pozzi e inquinatori della vita democratica.

Tutto questo, l’essere quasi sempre dalla parte giusta, qualcosa deve pur valere. Certo, poi è un bullo, le discussioni lo annoiano, preferisce fare da solo (ma quando sbaglia si dimette, almeno, altri sono ancora lì).

Insomma, Matteo non è il Lenin che vorremmo, è di stoffa diversa, ma è quello che la storia ci ha mandato. Gli atri saranno più collettivi, più dialoganti, ma sono anche più sfocati e inutili. Ossessionati dalla necessità del dialogo con quell’ammasso di dementi comprovati dei 5 stelle, per rientrare nel gioco dei ministeri.

Matteo non è simpatico a tutti. Ma, oggi, è l’elemento di rottura fra il vecchio e il nuovo: per questo attira antipatie e riserve. Ma ha ragione lui, anche questa volta. Il Pd può provare a liberarsene per sempre (non ci riuscirà), ma andrà a fondo, si perderà nelle spire di un populismo cretino e sarà complice di una grande rovina nazionale.

Insomma, Matteo non si può ordinare in drogheria come lo si vorrebbe. Va preso come è fatto, nel bene nel male.