Azioni Google, i passi in avanti in Cina sono più difficili del previsto

Qualche giorno fa i dirigenti di Google hanno ammesso per la prima volta l’intenzione di far funzionare il proprio motore di ricerca in Cina dopo una “pausa” di quasi un decennio. Durante il consueto incontro settimanale, il progetto è stato discusso dal co-fondatore Sergey Brin, colui a cui si deve (ma non era l’unico) la decisione del 2010 di ritirarsi dal mercato cinese. Una mossa che all’epoca fu ampiamente lodata dai manager di Google, guidati proprio da Brin, i quali avevano sostenuto che avrebbero preferito andarsene, piuttosto che sottoporre il loro strumento di ricerca alle rigide regole cinesi che filtrano i risultati politicamente sensibili, come accaduto in occasione dei contenuti relativi al massacro di piazza Tiananmen, del 1989.

Ebbene, il cambiamento di intenzioni ora manifestato, sembra essere il segnale più chiaro che alcuni dirigenti e stakeholders hanno considerato quel ritiro come un costosissimo errore di calcolo, poiché ha bloccato l’espansione aziendale in quello che oggi è il più grande mercato di Internet, dove centinaia di milioni di persone usano servizi quasi esclusivamente domestici, di proprietà di Baidu, Tencent Holdings, Meituan Dianping e Alibaba.

Di contro, altre società tecnologiche statunitensi hanno scelto di rimanere in Cina e hanno cercato di influenzare il governo “dall’interno”, piuttosto che disimpegnarsi. È il caso di Apple, uno dei pochi colossi tecnologici statunitensi con un fiorente business cinese, ed è dunque un rammarico di Google, avrebbe potuto ottenere risultati di rilievo nel mercato cinese se avesse compiuto un’operazione equivalente a quella della società di Cupertino. Il tutto sarebbe stato inoltre possibile senza dover necessariamente snaturare la propria natura: Mozilla, non certo una società pro-censura, ha gestito una versione del suo browser Firefox in Cina per più di un decennio, preferendo adattare il suo approccio piuttosto che andarsene dal mercato.

Tornando a Google, Bloomberg ricorda come Priyendra Deshwal, un ingegnere del software che ha lavorato ai progetti di ricerca di Google dal 2007 al 2012, abbia affermato come nel 2010 sia in prima persona intervenuto in un dibattito sulla decisione. Ha ricordato un incontro in cui i co-fondatori Larry Page e Sergey Brin hanno risposto alle domande dei dipendenti sulla Cina, in cui Brin aveva esplicitamente affermato che la società avrebbe dovuto rinunciare a una presenza nel Paese asiatico.

“Possiamo analizzare entrambi i lati della medaglia”, ha detto Deshwal. “C’è stato un dibattito nel senso che è stata una grande opportunità di business persa, ma anche un esempio di società che tiene fede ai suoi principi”. All’epoca Page e Brin hanno presentato questa mossa come un chiaro esempio di mantenimento dei valori di Google, ha poi aggiunto Deshwal.

Secondo un altro ex dirigente contattato dal media americano, il top management di Google aveva scelto di ritirarsi dalla Cina basandosi su una visione “in bianco e nero” della censura. Le implicazioni aziendali dell’abbandono sono state abbondantemente considerate, ma all’epoca valutare di limitare il flusso di informazioni online, in qualsiasi modo, era stato considerato molto negativo, e il coinvolgimento di Google in tali attività avrebbe potuto danneggiare il suo marchio nel resto del mondo.

Secondo lo stesso dirigente, la questione della censura online è diventata ora più sfumata, e ovunque ci sono dei margini di “controllo” sui contenuti. La Germania ha forti regole sui temi anti-odio, la Thailandia limita ciò che si può dire sulla sua famiglia reale online, e tutta l’Unione Europea ha una legge che – per quanto non certo equiparabile agli esempi di cui sopra – può permettere alle persone di esercitare il diritto all’oblio.

Non solo. Di questi tempi Google ha anche un leader diverso, l’amministratore delegato Sundar Pichai, che sembra avere meno scrupoli sull’argomento. Dopo i recenti rumors secondo cui Google starebbe sviluppando un servizio di ricerca per la Cina, Pichai ha confermato ai dipendenti che la società sta prendendo in considerazione il progetto, inquadrando lo sforzo come “esplorativo” e ancora alle “prime fasi”.

Il nuovo impegno di Google in Cina, con il nome in codice Dragonfly, è stato tenuto segreto dalla maggior parte degli impiegati fino alle notizie di stampa più recenti, e la rivelazione ha scatenato una tempesta di fuoco all’interno dell’azienda. Circa 1.400 impiegati hanno firmato una lettera per protestare contro la decisione, dicendo che comprometterebbe i valori dell’azienda.

Insomma, i piani di ingresso di Google in Cina non sembrano essere in un rettilineo. Ma, comunque, potrebbero essere opportuni in un’ottica di medio termine, al fine di non trascurare del tutto uno dei mercati più appetibili, anche per la grande G.

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