di Alberto Molinari

Stefano Pivato, Sia lodato Bartali, Castelvecchi, Roma, 2018, pp. 158, € 17,50.

Attento studioso dei rapporti tra politica e immaginario, Stefano Pivato è stato uno dei primi (e pochi) storici che ha aperto il mondo accademico universitario alle ricerche sullo sport. Tra i suoi numerosi e importanti contributi, nel 1985 usciva un saggio su Gino Bartali.
Come ricorda Pivato, all’epoca «la storia dello sport muoveva i suoi primi passi»: «la storiografia rimaneva una disciplina tutto sommato estranea a un fenomeno che pure era stato, fin dalle origini, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, un collettore di passioni, emozioni e sentimenti». Rispetto alla diffidenza degli storici nei confronti degli studi sullo sport, con il suo lavoro Pivato metteva in luce la complessità del fenomeno sportivo che, oltre all’aspetto emozionale e ludico, rimanda ad «un intreccio che coinvolge la dimensione politica, la storia del costume e della mentalità» (pp. 9-10).
La ricerca è stata da poco ripubblicata per i tipi di Castelvecchi con il medesimo titolo – Sia lodato Bartali – ma in una versione ampiamente modificata. Il volume, agile e di piacevole lettura e nello stesso tempo rigoroso e ben documentato, ripercorre in tre capitoli la vicenda che porta alla creazione del “mito” Bartali, comprende un originale excursus su “Bartali secondo Paolo Conte” ed offre al lettore la possibilità di accedere direttamente ad alcune fonti attraverso un’appendice antologica nella quale sono raccolti articoli particolarmente significativi sul campione toscano pubblicati tra gli anni Trenta e Quaranta.

Per spiegare le origini della mitizzazione del “pio” Bartali – cattolicissimo, nel 1937 prende l’abito del Terz’ordine carmelitano – Pivato risale agli albori del Novecento quando, superata l’iniziale ostilità nei confronti della pratica sportiva, i settori del movimento cattolico più attenti alle trasformazioni indotte dalla modernità individuano nello sport «uno strumento in grado di forgiare una nuova antropologia del militante cattolico» impegnato nella conquista cristiana della società: «Lo sport può insegnare al giovane militante valori quali la disciplina, la perseveranza, la tenacia ma soprattutto quel “coraggio” che gli educatori considerano un imprescindibile postulato per quella sfida alla modernità che, alle soglie del Ventesimo secolo, il mondo cattolico si appresta a lanciare» (p. 18).
È in particolare padre Semeria, uno dei protagonisti del cattolicesimo d’inizio secolo, ad elaborare «un’ideologia sportiva che avrebbe dovuto avvicinare i giovani agli ideali di un “cristianesimo di concorrenza”» (p. 18). Sfidando gli ambienti cattolici più conservatori, il sacerdote barnabita elabora una teoria pedagogico-sportiva che concepisce lo sport come «esercizio di un rinnovato abito mentale per i giovani militanti cattolici che dovevano acquisire, proprio attraverso la pratica sportiva, quel “coraggio cristiano” che li avrebbe preparati a una concezione competitivistica nella vita quotidiana» (p. 21).
Su questo sfondo si forma l’ideale del “magnifico atleta cristiano” che troverà in Bartali la sua più compiuta incarnazione.

A metà degli anni Trenta Carlo Bergoglio, firma di punta del “Guerin Sportivo”, e Carlo Trabucco su “Gioventù Nova”, il periodico della Gioventù Cattolica, veicolano per primi l’immagine del “pio” Bartali aprendo la strada ad «una e vera e propria opera di canonizzazione» (p. 24) del campione che si sta affermando nel ciclismo professionistico.
A mobilitare in questa direzione la stampa cattolica è Luigi Gedda, il dirigente dell’Azione Cattolica attento all’evoluzione del fenomeno sportivo che catalizza ormai l’interesse di milioni di persone. Mentre il regime strumentalizza lo sport in funzione propagandistica e in vista della creazione dell’“uomo nuovo” fascista, «Gedda propugna lo sport come un moderno strumento per l’apostolato» e «Gino Bartali diviene il testimone di una moderna apologetica». Nella seconda metà degli anni Trenta, di fronte alle iniziative del regime che mirano a soffocare i residui spazi di autonomia del movimento cattolico, «anche il mito bartaliano con i suoi connotati contribuisce ad affermare l’orgoglio e la presenza di una tradizione autonoma di cui, nonostante certi compromessi con il fascismo, alcune frange del mondo cattolico si mostrano gelose» (p. 27).
Contro l’immagine virilista a sfondo sessuale dell’uomo fascista, Bartali viene descritto come «casto per convinzione morale e igienica»; all’agonismo “guerriero” dello sport di regime si contrappone l’atteggiamento del campione che rispetta l’avversario traducendo in chiave sportiva i principi dell’etica cattolica; «non di rado, il comportamento in gara del “magnifico atleta cristiano” viene proposto come modello di stoicità, di rara sopportazione della fatica e del dolore, attraverso una prosa retorica che riecheggia i richiami dell’agiografia cattolica» (pp. 29-30).
Non solo il “pio” Bartali, dunque, ma anche il Bartali «bellicoso, combattivo, affatto remissivo e simbolo della riscossa del mondo cattolico» (p. 31).

Nel corso degli anni Trenta anche la stampa non cattolica e la pubblicistica fascista sottolineano a più riprese il versante religioso della vita di Bartali.
Pivato analizza l’oscillazione della stampa fascista che in alcuni casi esalta le qualità umane e le convinzioni religiose del ciclista toscano e contribuisce a rendere pubblica la sua adesione all’Azione Cattolica, in altri manifesta fastidio per l’ostentata professione di fede del campione e lo irride attraverso pungenti vignette anticlericali e appellativi come “il fraticello”.
Le penne del regime si compattano poi in senso antibartaliano alla vigilia del Tour de France del 1937. Di fronte all’indecisione di Bartali, reduce dalla vittoria al Giro d’Italia, circa la sua iscrizione alla competizione francese, la stampa fascista si scaglia contro il ciclista considerato reo di «un comportamento antisportivo» e di scarso spirito nazionale», spingendosi sino ad accusarlo «di voler barattare la sua partecipazione alla corsa a tappe francese in cambio di una consistente somma di denaro» (p. 36).
Emblematici sono anche i commenti di alcuni fogli di regime all’indomani della vittoria di Bartali al Tour dell’anno successivo. L’impresa del ciclista capace di vincere nella Francia del Fronte popolare è esaltata come prova della superiorità della gioventù sportiva fascista, ma nulla si dice del suo credo religioso.
Il fascismo non può peraltro evitare che attraverso questa vittoria si imponga definitivamente, anche oltralpe, l’immagine del “campione della fede”.

Il 31 luglio 1938 Bartali chiude da trionfatore il Tour de France.
Due settimane prima sul “Giornale d’Italia” è comparso il “Manifesto degli scienziati razzisti”, presupposto pseudoscientifico e ideologico delle leggi razziali varate in novembre che segnano l’inizio della tragedia degli ebrei italiani. L’antisemitismo fascista si riflette anche nello sport. Diversi atleti ebrei vengono espulsi dalle loro società sportive e sono costretti ad abbandonare l’attività agonistica. Le leggi razziali si ripercuotono in particolare nel mondo del calcio, costringendo alla fuga «personaggi come Ernő Egri Erbstein, allenatore del Torino, successivamente catturato e rinchiuso in un campo di lavoro. Più sfortunata la vicenda di Arpad Weisz, ebreo di origini ungheresi, alla guida della più prestigiosa squadra italiana degli anni Trenta, il Bologna “che tremare il mondo fa”. Weisz nell’ottobre del 1938 deve riparare a Parigi con tutta la famiglia e successivamente è rinchiuso ad Auschwitz dove muore» (pp. 42-43).
Dopo l’8 settembre 1943 l’antisemitismo razzista viene assunto come punto programmatico dalla Repubblica Sociale Italiana e i fascisti di Salò collaborano attivamente con i nazisti nella deportazione degli ebrei italiani verso i campi di concentramento e di sterminio.
È in questa cornice che si inquadra un’intensa pagina di impegno civile della vita di Bartali, segno dell’umanità e della generosità di uno degli atleti più amati nella storia dello sport italiano. Tra il 1943 e il 1944 – d’accordo con il cardinale di Firenze Elia Dalla Costa che ha allestito una rete per il salvataggio degli ebrei – con un gesto di grande coraggio Bartali approfitta della mobilità consentita dagli allenamenti per trasportare nel tubo del telaio documenti contraffatti che consentiranno a molti ebrei di sfuggire alla persecuzione razziale. Venuta alla luce solo dopo la morte del campione nel 2000, questa vicenda porterà al suo riconoscimento come “Giusto tra le nazioni” da parte dello Yad Shalem, il memoriale delle vittime della Shoah.

Al termine della guerra le gare ciclistiche possono riprendere con regolarità. Nel 1946 il “vecchio” Bartali – il campione ha quasi trentadue anni – si aggiudica il Giro d’Italia. L’anno successivo vince la Milano-San Remo e giunge secondo al Giro dopo Coppi, l’ex gregario di cinque anni più giovane. Nel 1948 trionfa al Tour de France. Su queste vittorie prende forma un nuovo mito, quello dell’“eterna giovinezza” del “campione della fede” che deve i suoi successi in età atleticamente avanzata anche ad una vita condotta secondo i dettami del cristianesimo.
Se però «nella seconda metà degli anni Trenta Bartali aveva recitato sulla scena sportiva un modello alternativo a quello fascista, nel mutato contesto politico del dopoguerra egli diviene il simbolo del conformismo politico di un’epoca, quella democristiana» (p. 47). Pio XII – definito “il Papa degli sportivi” per l’interesse dimostrato in più occasioni nei confronti dello sport – lo indica come modello esemplare agli uomini dell’Azione Cattolica e lo stesso Bartali si presta alla propaganda per il partito di De Gasperi.

Parallelamente, prende forma la leggenda di Coppi “comunista”. In contrapposizione all’esibizione della fede di Bartali, Coppi viene elevato «a campione di laicità»: «la fantasia popolare interpreta nelle sconfitte che Coppi infligge a Bartali l’ideale umiliazione di uno dei simboli dell’Italia cattolica e democristiana», «crea la leggenda del Coppi comunista per opporsi non solo al campione della bicicletta ma, almeno idealmente, per sconfiggere il simbolo dell’Italia democristiana: Gino Bartali, il “De Gasperi del ciclismo”» (pp. 56-57).
Anche se, come documenta Pivato, gli atteggiamenti di Coppi non lasciano trasparire simpatie politiche per la sinistra, nell’Italia lacerata dai conflitti politici e sociali del dopoguerra il mondo ciclistico si divide in due fazioni contrapposte e il dualismo sportivo assume una connotazione politica: come si sta o con De Gasperi o con Togliatti, così si fa il tifo o per Bartali o per Coppi. Pivato cita alcuni episodi tratti dalle cronache dell’epoca che attestano il sapore politico assunto dalla rivalità tra i due atleti. Nel 1947 ad esempio Vasco Pratolini nella sua veste di inviato al Giro d’Italia riporta la notizia dei cartelli della Gioventù Cattolica che in Campania inneggiano a Bartali, mentre in Puglia Coppi viene accolto al traguardo dai rappresentanti del Pci con un mazzo di garofani rossi.

L’uscita della nuova edizione di Sia lodato Bartali cade a settant’anni dal 1948, l’anno delle elezioni del 18 aprile che vedono la vittoria della coalizione a guida democristiana contro il Fronte popolare socialcomunista. Poco dopo, l’attentato a Palmiro Togliatti viene vissuto dalla sinistra come il segnale di un attacco generalizzato al Pci; il 14 luglio, quando la Cgil proclama lo sciopero generale, è già scattata la mobilitazione dei militanti comunisti che in alcune località assume un carattere radicale, alimentando nel Paese la sensazione di essere sull’orlo di una guerra civile.
Secondo una vulgata largamente diffusa, in quel frangente drammatico la vittoria di Bartali al Tour de France avrebbe “provvidenzialmente” salvato l’Italia dalle tensioni rivoluzionarie, pacificando il Paese.
Ricostruendo questo episodio, Pivato sottolinea il sussulto patriottico generato dal successo del campione toscano in terra francese e, soprattutto, l’enfasi delle cronache dei quotidiani sportivi e della stampa cattolica sul suo ruolo di “salvatore della patria”. Bartali sdrammatizza la rivoluzione “a colpi di pedale”: «il titolo più significativo è quello del “Giornale dell’Emilia” che con Sia lodato Bartali attribuisce alla vittoria una funzione miracolistica per avere calmato “il furore politico”» (p. 62).

Pivato esamina la vicenda sottolineando come la vittoria di Bartali avviene in realtà quando nelle piazza italiane le manifestazioni e i disordini seguiti all’attentato sono ormai scemati (in uno scenario che, peraltro, secondo diverse ricostruzioni storiche non si configurava in senso pre-rivoluzionario: «è fuor di dubbio che si sia trattato di una rivolta spontanea, una forma di jacquerie che coglie di sorpresa il Partito Comunista ma anche la CGIL che si adoperano per far rientrare quelle proteste» p. 64).
Il ruolo taumaturgico della vittoria al Tour de France appare quindi come frutto di una ricostruzione a posteriori. Il campione toscano, conclude Pivato, «è entrato nel mito senza passare per la storia. In realtà, al di là delle interpretazioni di carattere politico da una parte e dall’altra degli schieramenti, rimane il fatto che nella leggenda di Bartali che salva l’Italia dalla rivoluzione spunti di storie reali, miracolistica e visioni millenaristiche si sono intrecciati fino a creare quella che, verosimilmente, va considerata una leggenda metropolitana» (p. 70).
Una “leggenda” paradigmatica dell’intreccio tra la dimensione politica e l’immaginario sportivo e rimasta impressa nella memoria collettiva come uno dei simboli di un passaggio cruciale della storia repubblicana.


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