I guerrieri della notte: recensione del cult movie diretto da Walter Hill

21 gennaio 2020
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A più di quarant'anni dalla sua uscita il film, che racconta la caccia ai Guerrieri da parte di tutte le bande della New York cupa e violenta degli anni Settanta, non ha perso un briciolo della sua efficacia. Usare la parola "capolavoro" qui è quasi d'obbligo.

I guerrieri della notte: recensione del cult movie diretto da Walter Hill

Gli anni Settanta sono stati il periodo più buio della storia di New York.
In seguito a una grave crisi fiscale, l’amministrazione era sommersa dai debiti, la città era in crisi (non solo economica) e preda di incuria, abbandono, degrado. Rispetto agli anni Sessanta gli omicidi erano raddoppiati, i furti decuplicati, perfino nel cuore di Manhattan erano comunissimi spaccio e prostituzione: figuriamoci poi nei quartieri dove la polizia stessa aveva paura ad entrare, come il famigerato Bronx, che proprio in quegli anni ha costruito la sua nefasta e proverbiale reputazione.
La New York degli anni Settanta, insomma, era un po’ come la Roma di questa fine di anni Dieci: con la differenza che, allora, esistevano anche le gang. Che a Roma invece non ci sono o, se ci sono, o sono di altri tipo e natura rispetto a quelle d’oltreoceano.
Diversamente infatti dalla criminalità organizzata che affligge Roma, di stampo ormai prettamente mafioso e spesso arrivata da altre regioni, le gang giovanili di New York (che arrivarono a essere oltre trecento alla metà del decennio) nascevano dal territorio, nei quartieri più poveri, come reazione alla povertà, alla mancanza di prospettive, al senso di abbandono.
Le bande - che iniziarono presto a vestire vere e proprie uniformi, per quanto fantasiose - controllavano la loro zona di appartenenza, e tutte le attività illegali che vi prendevano luogo, terrorizzando la popolazione civile, e scontrandosi tra loro: per questioni territoriali o per il puro gusto di menar le mani.
È stata quella New York lì, quella che accoglieva chi atterrava all’aeroporto JFK con una guida raffigurante un teschio che recitava “Welcome to Fear City” a ispirare un film entrato nella leggenda.

A essere precisi I guerrieri della notte, è in realtà basato su un romanzo di Sol Yurick, a sua volta ispirato all’Anabasi di Senofonte.
Il romanzo di Yurick era datato 1965, ma la situazione della Grande Mela lo aveva reso ancora più attuale, e Walter Hill - pressato dalla Paramount, che voleva arrivare nei cinema prima di un altro film sulle gang che era in preparazione, The Wanderers - I nuovi guerrieri di Philip Kaufman - ne tirò fuori in fretta e furia un gioiello compatto e claustrofobico, dove tra le ombre di una notte newyorchese che sembra interminabile si nascondono e si svelano le influenze del cinema western (su tutti), ma anche dell’horror (nella costruzione della tensione) e perfino del musical, nel modo in cui le scene di lotta - che Hill ha voluto comunque realistiche e che hanno un’eleganza ruvida e affascinante - sono state coreografate.
Un film con un meccanismo narrativo che funzione come un orologio svizzero, girato con lo stile asciutto ed essenziale della New Hollywood senza dimenticare, mai, le esigenze dello spettacolo.

Tutto questo, però, spiega solo in parte lo straordinario magnetismo dei Guerrieri della notte, il motivo per cui è diventato quasi istantaneamente un cult movie in tutto il mondo, la ragione per cui schiere di fan di tutte le età lo venerano e si esaltano per le scene di battaglia, e citano a memoria le battute celebri e fulminanti del film; specialmente, diciamocelo, quelle più volgari e scorrette politicamente, e che oggi in un film non sarebbero nemmeno immaginabili perché bollate come sessiste, discriminatorie, non inclusive: ve lo immaginate voi il pandemonio, di fronte magari non alla leggendaria battuta “Ti infilo quel bastone nel culo e ti sventolo come una bandiera” pronunciata da Ajax, ma a certi scambi tra Swan e Mercy che tirano in ballo treni speciali e materassi attaccati alla schiena?
Citazioni immortali a parte, non c’è praticamente scena, o personaggio, nel film di Hill, che non sia infuso di quella magia per la quale l’etichetta di cult movie sembra essere stata inventata: i Guerrieri e le loro divise, e le bande rivali, con le Baseball Furies a farla da padrone, ma senza dimenticare i Punks, le loro salopette e i loro pattini a rotelle, o i marzialissimi Riffs, o gli indimenticabili “orfanelli spastici”; il monologo di Cyrus davanti alle bande riunite; le labbra rosse e la voce calda di Dj Bonnie, che si rivolge ai “super muscoli che vivono in città” per dare loro indicazioni sui Guerrieri in fuga; il ghigno sadico e isterico di Luther e quelle tre bottiglie di birra infilate sulle dita e fatte tintinnare ossessivamente assieme nel silenzio dell’alba di Coney Island: “Guerrieeeriiii…? Giochiamo a fare la guerra? Guerrieeriiiii…?”.
Per una notte, o per la durata di un film, accompagniamo i Guerrieri che partono da Coney e viaggiano (in nove, e senza armi) per quasi cinquanta chilometri, fino a Van Cortlandt Park, estremi nord del Bronx, dove Cyrus ha dato appuntamento a tutte le bande della città per raccontargli il suo Sogno. E da lì, li seguiamo e tifiamo per loro nel loro tentativo disperato di tornare indietro, a casa, sani e salvi, attraversando tutta New York e affrontando, come in un videogame (che difatti poi, ispirato al film, c’è stato), nemici su nemici convinti siano stati loro ad aver ucciso Cyrus.

E ce la fanno, a tornare a Coney, i Guerrieri.
E - lo sappiamo tutti, lo sappiamo bene, per quante volte l’abbiamo visto questo film - che una volta a Coney, Swan - diventato capo-guerra alla morte di Cleon, all’inizio del film, commenterà amaro: “Guarda che posto di merda...e abbiamo combattuto tutta la notte per ritornarci”.
Ecco, senza nulla togliere alle bande, al look, agli scontri, alla violenza e alle battute caustiche, a rendere davvero grande I guerrieri della notte è questa sua vena malinconica e crepuscolare, che emerge lentamente, e che s’impadronisce del film.
Sono Swan e Mercy, sporchi e distrutti, che si ritrovano in metropolitana davanti a ragazzini borghesi di Manhattan, reduci da un ballo di fine anno. Due mondi che si guardano, e che non si parlano, perché non possono parlarsi, non possono capirsi.
Sono Swan e Mercy - dopo che lui ha raccolto per lei il bouquet abbandonato dai ragazzini, ma solo perché odia vedere sprecare le cose - che si confessano a mezza bocca i sogni inconfessabili di fuga da quel mondo che li costringe a essere brutti, sporchi e cattivi, davanti all’oceano che bagna la spiaggia di Coney, prima che arrivino Luther e le sue bottigliette.

Walter Hill condensa in un paio di scene e di battute tutto il senso di sconfitta e il nichilismo di quella New York che racconta, quella degli anni Settanta della violenza, della povertà, delle bande.
Ma non è tipo da sdilinquirsi, è un duro, il suo è un film duro per duri, e allora le parole finali spettano a DJ Bonnie, e alla sua musica: “Buongiorno a voi, super muscoli. La caccia ai Guerrieri è finita. Quei ragazzi non avevano commesso il fattaccio, su nel Bronx. Hanno dovuto combattere e difendersi tutta la notte solo per salvare la pelle. Beh, ci dispiace davvero, non ci resta altro da fare che metter su una bella canzone.”
E ai Guerrieri, come ai cavalieri solitari del Vecchio West, non resta che cavalcare verso il sole: non un tramonto, ma un’alba. Perché domani, diceva qualcuno, è un altro giorno.
E chissà che quel giorno non porti qualcosa di nuovo, nella vita di Swan e della sua banda.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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