Border - la recensione del film fantastico vincitore di Un Certain Regard a Cannes

13 marzo 2019
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Da un racconto di John Ajvide Linqvist arriva sullo schermo una visione originale che non si dimentica facilmente.

Border - la recensione del film fantastico vincitore di Un Certain Regard a Cannes

Tina è una donna deforme e sterile, con un padre anziano ricoverato in casa di riposo. Vice in un cottage nei pressi di un fitto e bellissimo bosco, assieme a un uomo con cui non ha rapporti, che sfrutta la situazione e la aiuta a sentire meno la propria solitudine e diversità. Di lavoro fa l'”annusatrice” alla dogana portuale: ha infatti la straordinaria capacità di sentire il senso di colpa e la malvagità di chi nasconde qualche segreto più o meno grande, e non sbaglia mai nell'indicare i responsabili. Fino al giorno in cui l'apparizione di uno strano essere, dall'apparenza selvaggia, non mette in crisi la sua identità e le fa sospettare di non essere poi così sola.

Se non conoscete ancora i libri di John Ajvide Linqvist, dovreste. Perché la sua è una delle voci più originali della letteratura fantasy/horror contemporanea. Paragonato spesso e non del tutto a proposito a Stephen King, innesta l'orrore all'interno della società e del paesaggio svedese in modo quasi indissolubile dal banale e dal quotidiano, e alcune delle sue storie hanno echi antichi, quasi lovecraftiani. La sua rilettura dei mostri tipici dell'horror si incontra con un realismo narrativo quasi dimesso, ben lontano dalle epiche manifestazioni del Male del maestro del Maine. Il titolo in apparenza romeriano del bellissimo “L'estate dei morti viventi” - a nostro avviso il suo capolavoro - nasconde in realtà una storia dolorosa e molto umana di trapassati senza riposo.

Dal suo primo romanzo a tema vampiresco, è stato tratto il bellissimo Lasciami entrare di Tomas Alfredson (nonché il suo inutile remake americano) e adesso dal racconto “Confine”, contenuto nella raccolta “Muri di carta”, arriva al cinema Border, diretto da Ali Abbasi, iraniano trapiantato nel freddo Nord, che ha conquistato a Cannes la giuria presieduta da Benicio del Toro, vincendo la sezione Un certain Regard. L'apporto di Lindqvist in sceneggiatura è in questo caso più consistente di quello dato al primo film, visto che il racconto originale si dispiega in una cinquantina di pagine incentrate soprattutto sull'incontro tra i due personaggi principali, troppo esili per trarne un lungometraggio. Gli autori hanno così inserito tutta la sotto trama relativa alla pedofilia, che diventa però fondamentale, in quanto offre una motivazione alle azioni di Vore e conferisce una nuova modernità alla mitologia relativa ai cosiddetti changeling, i bambini umani scambiati in culla dal cosiddetto "Piccolo popolo" coi propri deformi.

Da sempre riteniamo scorretto rivelare particolari importanti, ancor di più sulla trama di un film del genere, cosa che a quanto pare non vale per chi ha visto il film a Cannes e ne ha scritto allora. Ovviamente noi non lo faremo, anche se va detto che rispetto alla fonte scritta, il cinema ha in questo caso uno svantaggio: leggendo il racconto sappiamo solo che la protagonista, Tina, “sniffatrice” di paura, sensi di colpa e sostanze pericolose per la dogana portuale di un'isola dell'arcipelago svedese, è una donna molto brutta e sfigurata, ma non ci aspettiamo minimamente le rivelazioni che seguiranno. Il film, però, deve mostrare e vederla sullo schermo fornisce molti indizi allo spettatore più attento e a chi è più famigliare con la mitologia nordica, così come la somiglianza tra lei e il personaggio di Vore - che nel racconto lei “sente”, senza riconoscerlo - è resa più evidente dal trucco dell'attore.

Ma le sorprese di una narrazione a cui abbandonarsi senza resistenze e sovrastrutture restano in ogni caso molte e sotto diversi aspetti la versione filmata dà alla storia una maggiore rilevanza “politica”. Tina e Vore diventano un evidente simbolo di tutti i popoli nativi, gli indigeni sterminati dai conquistatori di ogni epoca, e la loro sofferenza fa pensare ad altre e più reali ordalie. Sono il simbolo del contrasto tra natura e civiltà, esponenti di una vitalità primordiale repressa e costretta in abiti in cui chi da sempre cammina scalzo non si sente a proprio agio, appartengono a un popolo di cui la società è lieta di servirsi per le loro peculiarità ma che non accoglie mai veramente al suo interno.

Tina è la vittima di una doppia discriminazione col suo corpo sgraziato di "donna" e l'impossibilità di amare e costruire una famiglia “normale”. L'incontro con un suo simile svela questa millenaria congiura del silenzio, mostrandole la bellezza e, in un certo senso, la superiorità morale, di chi c'era prima, per quanto Vore stravolga queste qualità per compiere una terribile vendetta razziale. I protagonisti di Border difendono il loro diritto ad essere quello che sono, non accettano di essere cancellati e messi ai margini da chi, detenendo il potere, impone la sua morale e il suo stile di vita come l'unico giusto e possibile, salvo poi compiere atroci delitti sui suoi stessi simili.

Come accade con gli scritti di Linqvist, lo stile di racconto naturalistico adottato dalla sapiente regia di Ali Abbasi, costellato di tocchi umoristici, traccia una nuova via per il cinema fantastico, conducendoci all'interno di territori inquietanti che smuovono qualcosa nel nostro lato più profondo. Con Border entriamo nel regno mostruoso delle favole e delle nostre paure infantili, rese concrete e reali. Non stupitevi dunque se farete sogni strani dopo aver visto questo film, che ha la capacità rara di insinuarsi sotto pelle e non lascia indifferenti, come ormai avviene con l'80 per cento delle innocue visioni a cui siamo abituati.



  • Saggista traduttrice e critico cinematografico
  • Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
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