Contromano: la recensione del film di Antonio Albanese

26 marzo 2018
2.5 di 5
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Dopo 16 anni l'attore torna dietro la macchina da presa per raccontare una favola ironica su un tema molto drammatico.

Contromano: la recensione del film di Antonio Albanese

E' una singolare coincidenza che escano contemporaneamente due film italiani che scelgono di affrontare temi difficili, impegnativi e molto presenti nella vita contemporanea con l'arma dell'ironia e della leggerezza. Ci riferiamo a Io c'è, che parla dell'importanza della religione e del bisogno di credere in qualcosa (qualsiasi cosa), e di Contromano, con cui per l'occasione Antonio Albanese torna alla regia 16 anni dopo Il nostro matrimonio è in crisi, per confezionare una fiaba surreale sul nostro razzismo quotidiano e i problemi dell'immigrazione. Entrambi, però, nonostante l'onestà e le buone intenzioni dei realizzatori, finiscono in modi diversi per combattere con armi spuntate una realtà che è sempre un passo avanti in direzione dell'orrore.

Questo non significa che non ci siano spunti e idee, in questo lungometraggio scritto a più mani (tra cui quelle del disegnatore satirico Makkox), che colgono nel segno, a partire dal promettente inizio, dove nel protagonista intravediamo l'ordinario e inconsapevole razzismo del brav’uomo che, vittima della martellante propaganda elettorale e delle allarmistiche notizie diffuse dai media, comincia a pensare che gli immigrati siano davvero troppi e che sarebbe meglio riportarli a casa loro, magari uno alla volta.

Del resto chi non si è mai sentito “circondato” nella vita quotidiana? Fuori dal supermercato, per strada, al semaforo, in spiaggia, costretto a dire no cento volte al giorno a persone che suscitano umana pietà ma che finiscono per dare fastidio anche a chi razzista non è mai stato ma non sa che fare ed è consapevole che una semplice elemosina non risolverà il problema. Figuriamoci poi se la persona in questione è un abitudinario come il protagonista Mario Cavallaro, che vorrebbe che le cose restassero sempre uguali ed è destabilizzato da qualsiasi cambiamento. Per un uomo così è un vero e proprio trauma il fatto che il bar in cui fa colazione da trent'anni venga venduto a un egiziano e la goccia che fa traboccare il vaso è quando davanti al suo storico negozio di calze e cravatte si piazza un concorrente sleale extracomunitario che vende calzini a pochi euro.

Solo e triste, Mario nasconde sotto la corazza burbera un animo gentile, che si manifesta nell’amore che riserva al suo orto. Gli immigrati gli fanno fastidio, in fondo, perché rappresentano il tempo che passa e il mondo che cambia, e sono la prova evidente di uno squilibrio per lui innaturale: se ognuno restasse nel posto in cui è nato, è il suo ragionamento, tutto sarebbe perfetto. Da lì parte una specie di raptus, che lo spinge a rapire il giovane per riportarlo casa sua. Le cose si complicano quando entra in gioco la fidanzata del ragazzo, che lui spaccia per sorella. E’ proprio lei, bella, dolce e incantatrice, a sedurre il pover’uomo, offrendogli la possibilità di riportarne in Senegal due al prezzo di uno.

Chissà se sono farina del sacco di Makkox (magari sbagliamo, ma pensiamo di sì), le due immagini – belle e significative, che aprono e chiudono il film. Due movimenti in direzioni opposte e che racchiudono il senso di questo on the road: all’inizio la mdp scende dall’alto su un’Italia disegnata per terra, che emerge man mano che qualcuno spazza le foglie da cui è coperta e su cui trovano posto dei bambini . Alla fine, la mdp si allontana dalla terrazza dell’appartamento fino a mostrarci il nostro mondo, piccolo e luminoso, dallo spazio. In questa cornice è racchiusa la storia di un incontro e di uno scambio, anche di luoghi, controcorrente e contromano, che saggiamente affianca al protagonista due ragazzi che non sono presentati come due santi, ma come esseri umani con le loro tentazioni e i loro lati oscuri. Però qualcosa, negli ingranaggi di questa esile commedia, sembra non funzionare. Forse una struttura così favolistica non regge le ambizioni di dire molto e suggerire altrettanto, inserendo nel film momenti che – soprattutto nel finale – risultano prevedibili.

Ed è un peccato, perché ci sono cose davvero belle e giuste in questo invito a conoscersi e a guardarsi in faccia, in un momento in cui perfino soccorrere degli esseri umani in difficoltà è diventato un crimine. Noi vogliamo un gran bene a quell’omino dallo sguardo buono e dal sorriso luminoso che da anni ci fa ridere e pensare, e che risponde al nome di Antonio Albanese, ma  c'è poco da fare: più che questo suo versante malinconico e un po' Kaurismakiano, è purtroppo ancora l'apoteosi della volgarità criminale di Cetto La Qualunque a rispecchiare con lucida chiarezza i tempi in cui viviamo.



  • Saggista traduttrice e critico cinematografico
  • Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
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