L'uomo che rubò Banksy: recensione del documentario di Marco Proserpio presentato al Torino Film Festival 2018

10 dicembre 2018
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Un viaggio fra la Palestina e i nuovi confini dello sfruttamento commerciale della street art.

L'uomo che rubò Banksy: recensione del documentario di Marco Proserpio presentato al Torino Film Festival 2018

Walid, il muro che odiosamente divide Betlemme dal resto del mondo, e in parte dalla stessa Betlemme, lo conosce molto bene. Fa il tassista e lo costeggia ogni giorno decine di volte, non senza commuoversi e ricordare le parole delle guardie israeliane che quasi vent’anni fa, quando gli abitanti non sapevano cosa facessero tutti quei camion e quelle ruspe, gli avevano detto ‘non sentirete più neanche l’aria’. Lo chiamano tutti la bestia, perché pratica il body building fin da quando era un ragazzino magro, per sentirsi meno indifeso. 

È lui L’uomo che rubò Banksy, come suona il titolo di un documentario di Marco Proserpio, che parte dalla Palestina e dalle celebri opere che nel 2007 il misterioso e sempre più quotato street Artist realizzò direttamente nei territori occupati, tra cui la celebre e discussa immagine di un soldato israeliano che esamina i documenti di un asino. I locali non la presero tutti bene, sentendosi paragonati al cocciuto animale. La dimostrazione dell’impossibilità di muoversi senza creare scossoni in quella terra martoriata. Bansky cercò di condurre dove aveva più senso i giornalisti che gli stavano da anni sempre dietro, alla ricerca dello svelamento sulla sua vera identità. 

Proprio in quel periodo si accelerò un fenomeno sempre più diffuso: quello del furto e della commercializzazione di quelle opere di arte di strada, nate proprio contro l’omologazione e lo sfruttamento economico. Grazie, anche, a persone come Walid e, soprattutto, il suo capo Maikel Canawati, che staccarono il soldato e l’asino dal muro e portarono le tonnellate fino al magazzino di un collezionista. Proserpio allora devia il suo viaggio per seguire collezionisti pronti a vendere opere altrimenti destinate a cancellarsi col tempo -  almeno così si difendono giustidicarsi - cercando di fare il punto della situazione anche legale: è un furto, o no?

Narrato dalla roca voce di Iggy Pop, L’uomo che rubò Banksy nasce da una evidente passione per il ruolo eterodosso e dirompente della street art, senza riuscire (ma probabilmente neanche cercare) di fare piena chiarezza sull’evoluzione che ha portato all’ingresso nei musei e nelle gallerie più mainstream di Banksy & co, come il nome di una tanto discussa mostra tenuta qualche anno fa a Bologna. La cosa più interessante del film, più che una nota di denuncia sul soffocamento di Betlemme e della Palestina accerchiata dal muro, la sfida sul diritto d’autore. Una nuova frontiera tra le più importanti dei prossimi decenni, non solo per l’arte di strada, ma anche per tutte le declinazioni creative legate alla rete, ai social network e alle nuove tecnologie, anche quelle ora impossibili da prevedere.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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