Le livre d'image: recensione del film di Jean-Luc Godard in concorso al Festival di Cannes 2018

12 maggio 2018
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Le livre d'image: recensione del film di Jean-Luc Godard in concorso al Festival di Cannes 2018

Le livre d'image: recensione del film di Jean-Luc Godard in concorso al Festival di Cannes 2018

Le livre d’image. Il libro illustrato. Il libro, le immagini, ma anche la musica, la parola il gesto. Le mani, quelle mani che sono lo strumento del pensiero dell’uomo, condannato a pensare con esse, in una delle prime delle innumerevoli frasi del film di Jean-Luc Godard.
Frasi, immagini, foto, dipinti, disegni. Frammenti, accumulati in maniera ossessiva e ripetuta attorno a concetti, attorno a loro stessi, per ripetersi sempre uguali e sempre diversi.
Sopra ogni cosa, certamente, il cinema. Da Vertov a Apocalypse Now, passando per Rossellini, Hitchcock, il western, Guerra e pace, Pasolini, Sokurov, Syriana. Ma anche i video delle CCTV, degli smartphone, di YouTube.
Tutto. E niente.
Niente intero, niente del tutto intelligibile, ma sgranato, ripetuto, solarizzato. Esposto e piegato e mescolato alla musica, alla parola, alle mani di un regista che a 87 anni continua a proporre sé stesso e la sua visione del mondo, del cinema, delle cose. Sempre uguale e sempre diverso.

È un’appendice alle sue Historie(s) du Cinéma, Le livre d’image, nel quale Godard utilizza la stessa struttura per esporre la visione godardiana ('HIS TOI RE DU CI NE MOI', diceva in quell’altra sua opera) del mondo contemporaneo, della sua storia, delle sue storie.
Il cinema, la musica, i libri, la parola, le mani, utilizzati per raccontare a modo suo la crisi dell’Occidente, il suo crepuscolo, e l’alba di qualcosa di nuovo che sta (?) sorgendo in Oriente.
L’Arabia felice. O forse l’araba fenice.
L’Arabia, gli arabi, non l’Islam. Non l’Isis. Non solo.
A un certo punto, quindi, una novella. Le mille e una notte godardiana, con regista che si fa Sherazade debordiana, col racconto dell’immaginario emirato di Dofa, senza petrolio, sospeso tra mire espansionistiche, voglia di pace dei suoi abitanti, impossibili sogni rivoluzionari.
Dofa non come metafora dell’Oriente, ma come nuova Mesopotamia, forse, nuova culla dell’umanità. Dove la storia, come Godard, è destinata a ripetersi.

Il potere, il capitalismo, il popolo, lo sfruttamento, la guerra, la violenza, la rivoluzione (quella vera e quella finta), le bombe. Dalla cui parte, dice l’eremitico, ricco, bianco e borghese Godard “siamo sempre”. Coerente e contraddittorio. Come sempre.
Il percorso è sempre lo stesso, e diverso; le immagini sono sempre nuove, e uguali.
E Godard c’est Godard. Ieri come oggi, in occidente come in oriente.
Come il cinema, come mondo.



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