Suspiria: recensione del film di Luca Guadagnino, remake del capolavoro di Argento, in concorso al Festival di Venezia 2018

01 settembre 2018
3.5 di 5
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Horror fino a un certo punto, ma si parla l'Amore, femminilità, maternità, storia della Germania e della dialettica tra purezza e corruzione. Con la solita eleganza formale.

Suspiria: recensione del film di Luca Guadagnino, remake del capolavoro di Argento, in concorso al Festival di Venezia 2018

Chi se ne frega di come Luca Guadagnino ha trattato il copione di Dario Argento e Daria Nicolodi, di come lo ha stravolto e trasformato. Quelle sono considerazioni che lascio volentieri a tifosi e fanatici, a quelle frange di ossessionati che, stando a quanto avviene quotidianemente sui social, sembrano essere diventate maggioranza nel pubblico del cinema e non solo.
Anche perché, al netto di certe scene, ma anche considerando quelle, questo Suspiria qui non è un vero horror. Nemmeno un horror tutto d’astrazione e d’atmosfera come quello del 1977.

Proprio da quella data è partito, Guadagnino, costruendo “Sei atti e un epilogo” che sulla trama argentiana, stravolta, innesta questioni legate alla RAF e alla Banda Bader-Meinhoff, e pure quelle sul senso di colpa e la vergogna che stavano (e speriamo stiano) ancora lì, nel retro del pensiero del popolo tedesco, per quanto avvenuto negli anni del Nazismo e dell’Olocausto. Colpa e vergogna dalle quali questo Suspiria assolve chi è in grado di provare amore: amore puro, e longevo.

Di cosa parla, allora, Suspiria? Parla d’amore? Sì, certo: Guadagnino alla fine parla sempre di quello. Parla della storia tedesca? Solo in funzione di altro, verrebbe da dire. Parla di streghe? Eccome, certo che lo fa: e quindi - non mi fraintendano le femministe col dente avvelenato - parla di donne e di femminilità, di sessualità, e perfino di maternità. Perché la Mater Sospiriorum non è certo l’unica madre che conti, in questo Suspiria. In un film che lo mette in chiaro fin da subito inquadrando un quadro all’uncinetto che recita “Una madre è quella che può sostituire tutti, ma che è insostituibile.”

L’horror è poco più che un pretesto, per Guadagnino, per portare avanti i discorsi che gli interessano. Per giocare un po’ col cinema, e con la tensione, con risultati notevoli in alcune scene (quella dove la Susie di Dakota Johnson danza per la prima volta, e gli effetti del suo danzare su un’altra ragazza sono raccapriccianti), meno in altre (una sorta di carnage pre-finale un pelo troppo alla Rob Zombie).

Forse, alla fine della fiera, quello che veramente esplora Luca Guadagnino in questo film - e che gli importa come e quanto la consueta notevolissima cura formale, visiva, del décor, dei costumi - è la dialettica tra purezza e corruzione. Nelle idee (le simpatie rivoluzionarie di Patricia), nel rapporto con la fede (Susie è una Amish che ha ripudiato il suo credo), in quello con la madre (quella di Susie che l’ha ripudiata, oltre poi a tutte le altre), ovviamente nell’Amore (quello dello psicanalista per la moglie scomparsa, certo, ma anche quello di Madame Blanc per Susie).
In fondo, sembrerebbe, anche nel cinema.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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