The House That Jack Built: la recensione del film scandalo di Lars Von Trier presentato al Festival di Cannes 2018

15 maggio 2018
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Un film che porta alle estreme conseguenze quello che si può tranquillamente definire il cammino di autoanalisi di un regista geniale, sregolato, pazzo e tormentato.

The House That Jack Built: la recensione del film scandalo di Lars Von Trier presentato al Festival di Cannes 2018

Solo Lars Von Trier, cacciato da Cannes per via di alcune (fraintese) dichiarazioni sul nazismo, poteva tornare a Cannes con un film che, incidentalmente, ritorna proprio su quel discorso reiterandolo, e parlando di Speer, degli Stuka, dell’agire nazista come di qualcosa di iconico dal punto di vista della creazione e dell’immagine.
Più che la violenza messa in scena da The House That Jack Built, è questo spirito - fatto anche di certi passaggi di misogina ostentata e, appunto, di facciata, e di certa spudoratezza paracula del pensiero e delle immagini - che ha scandalizzato e scandalizzerà chi benpensa, chi non vuole capire e si ferma alla superficie di un film che porta alle estreme conseguenze quello che si può tranquillamente definire il cammino di autoanalisi di un regista geniale, sregolato, pazzo e tormentato.

Sono anni che il danese cammina sul confine sottile che divide la sua paraculaggine dalla sua sincerità, mettendo in scena le sue ossessioni e le sue debolezze con una sincerità (camuffata) che ispira quasi tenerezza.
Questa volta il confine è diventato una corda tesa sopra abissi infernali, abissi nei quali - lo sappiamo da prima, e lo capiamo sempre di più - Lars Von Trier si è destinato a precipitare.
Perché The House That Jack Built non è solo il racconto di un serial killer lungo dodici anni della sua “carriera”, ma è anche il dialogo costante - morale, intellettuale, teorico - di questo assassino psicopatico con un Virgilio che lo deve traghettare proprio nell’Ade. E questa rilettura vontrieriana della Divina Commedia, che comprende anche chiari riferimenti iconografici a Dante e al suo viaggio (basterebbe l’accappatoio rosso con cappuccio che Jack indossa a un certo punto, per capirlo, ma si va oltre: c’è anche re-enactement di “La barca di Dante” di Delacroix) altro non è che una lunga, estenuante, provocante e a tratti divertente messa in scena del dialogo che Lars il cattivo, Lars il provocatore, Lars il misogino e il sadico, da con Von Trier il depresso, l’uomo intelligente che si vuole aiutare, e che chiede in qualche modo aiuto, che si disprezza e si spaventa e si condanna.
Lars la tigre e Von Trier l’agnellino, per riprendere William Blake, citato chiaramente nel film.

Nel personaggio di Matt Dillon, il danese mette il peggio di sé, mettendoci il carico pesante, ma anche la sincerità con la quale persegue un perverso disegno artistico che si rifiuta di seguire le regole della morale comune. E a quel personaggio, contrappone quello del Virgilio di Bruno Ganz, che poi è sempre lui, la sua coscienza, che bacchetta, consola, inorridisce a seconda dei casi. E che serve a denudare, a togliere sovrastrutture a mettere un personaggio e un uomo davanti allo specchio lasciandolo libero però di esercitare il suo arbitrio. Non a caso quel personaggio si chiama Verge: che sì richiama Virgilio, ma che in inglese vuol dire limite, limitare, orlo.
Jack è il killer che vuole essere inconsciamente preso, fermato, acchiappato (come quando da bambino fuggiva lontano, giocando a nascondino, ma lasciando una traccia utile al godimento dell’essere trovato); Verge è l’(auto)analista che glielo sbatte in faccia, come gli sbatte in faccia le sue perversioni, e le sue illusioni intellettuali, i suoi confini e i limiti suoi e del suo agire.
E se ancora qualcuno avesse dei dubbi su chi sia il vero soggetto di The House That Jack Built, Von Trier non solo torna sulla questione nazismo (da Cannes a Cannes), ma inserisce anche spezzoni di suoi film che dovrebbero corroborare le teorie di Jack sul gesto artistico.

È autoindulgente, ruffiano, furbetto, Lars Von Trier? Certamente.
Ma è anche fragile, sincero, intelligente. Tanto intelligente da non rendere sterili le sue provocazioni e sue confessioni, e di costruirgli attorno un film crudo ed elegante assieme, fantasioso e spericolato ma anche compatto e coerente, capace di immagini strazianti e altre folgoranti.
Un film duale e dissociato come il suo protagonista, come il suo autore, per il quale l’arte si ritrova tanto nel sublime  sensibile di Glenn Gould (altra citazione del film) quanto in certe icone amorali.
Sembra di vederlo, Von Trier, sorridere sornione delle reazioni esagerate ed esagitate al suo film. E sembra di vederlo, Von Trier, patire e soffrire nel raccontarsi, e nel condannarsi a quegli abissi di dolore e sofferenza in cui precipita nell’illusoria convinzione di poter trovare salvezza e redenzione. O solo un freno ai suoi istinti.
Capace di queste cose qui, oggi, c’è davvero solo lui. E io me lo tengo stretto.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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