2 aprile 2019 - 20:20

Matteotti riformista del futuro

Riscopriamo le sue idee, finora relegate sullo sfondo dall’eroico martirio
L’introduzione di Walter Veltroni a un libro del leader socialista (Rizzoli)

di WALTER VELTRONI

Matteotti riformista del futuro Giacomo Matteotti durante una vacanza a Roccaraso (L’Aquila) con il figlio Giancarlo (1918-2006)
che sarà parlamentare del Psi e poi del Psdi
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Se si domandasse a una persona mediamente informata sulla storia italiana di affrontare il tema «vita e morte di Giacomo Matteotti», quasi sicuramente ci si ritroverebbe di fronte a un interlocutore preparato a parlare più della seconda che della prima. Si sa ciò che avvenne e si sa chi fu il mandante politico e morale — al di là di quanto la richiesta fosse stata esplicita o giocata sulle parole — del delitto. Fu Mussolini, che d’altro canto, nel famoso intervento del 3 gennaio 1925 alla Camera, chiuderà la questione affermando: «Se il fascismo è stato ed è un’associazione a delinquere, io sono a capo di questa associazione a delinquere».

A essere conosciuta meno è la vita del Matteotti politico, dell’uomo che al momento dell’omicidio, nel giugno 1924, è davvero «l’oppositore più intelligente e irriducibile» del nascente regime, come lo definirà Piero Gobetti.

 Giacomo Matteotti, «Un anno di dominazione fascista», con l’introduzione di Walter Veltroni e un saggio di Umberto Gentiloni Silveri (Rizzoli, pagine 264, euro 17)
Giacomo Matteotti, «Un anno di dominazione fascista», con l’introduzione di Walter Veltroni e un saggio di Umberto Gentiloni Silveri (Rizzoli, pagine 264, euro 17)

Matteotti, in effetti, vede prima di altri la natura violenta e l’intenzione totalitaria del fascismo, capisce che quella mussoliniana non sarebbe stata una parentesi e che sarebbe diventata una lunga dittatura. E per questo fa ciò che il suo libro Un anno di dominazione fascista dimostra in modo esemplare, ed è per questo che è così importante ripubblicarlo oggi, a quasi un secolo di distanza: mette una determinazione feroce e lucida nel denunciare, in modo tanto puntiglioso quanto coraggioso, le violenze fasciste che si stanno intensificando.

Le sue pagine danno ragione alle parole con cui un suo compagno di partito lo descriveva, osservando che «passava ore e ore nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per lottare con la parola e con la penna, badando a restare sempre fondato sulle cose». Sono pagine straordinarie. Matteotti fa un’analisi precisa della situazione economica e finanziaria, numeri alla mano indica come i conti pubblici stiano peggiorando, soffermandosi sulla bilancia commerciale e sul disavanzo, sulle entrate tributarie, sull’evoluzione di profitti e salari, sulla situazione dell’occupazione e dell’emigrazione.

Giacomo  Matteotti (1855-1924)
Giacomo Matteotti (1855-1924)

È un libro che è il frutto di una tale concretezza e di una tale radicale e coraggiosa passione politica da non poter appartenere che a un vero riformista. E da questo punto di vista, se contribuisce a spiegare le ragioni di una morte, ancora di più racconta, a mio avviso, il senso di una vita. Proprio l’aspetto che di Matteotti, come dicevamo, meno si conosce.

Carlo Rosselli, che un giorno sarebbe andato incontro alla sua stessa sorte insieme al fratello Nello, lo definì «un eroe tutto prosa». Nel senso che al di sopra di ogni altra cosa metteva il pensiero pratico, lo studio concreto della realtà e i numeri e i documenti che la descrivevano.

A interessarlo erano i problemi reali delle persone, dei lavoratori, degli ultimi. A cominciare da quelli delle popolazioni del suo Polesine, dei braccianti del delta del Po, costretti a vivere in condizioni di povertà estrema. Per il loro riscatto aveva scelto la politica. Aveva scelto il socialismo, lui che proveniva da una famiglia della borghesia agraria molto più che benestante, ricca. Laureato brillantemente in Giurisprudenza, forte di studi all’estero, avrebbe potuto scegliere — avrebbe potuto anche vivere di rendita, se è per questo — una remunerativa carriera di avvocato o decidere di intraprendere quella accademica.

Decise diversamente. E fa effetto, in tal senso, pensare alla lettera con cui un mese prima di essere ucciso rispose a quella inviatagli dal professore di Diritto penale e senatore liberale Luigi Lucchini, che gli chiedeva di essere prudente, di lasciare la politica e di dedicarsi agli studi. «Purtroppo non vedo prossimo», scrive Matteotti al suo interlocutore, «il tempo nel quale ritornerò tranquillo agli studi abbandonati. Non solo la convinzione, ma il dovere oggi mi comanda di restare al posto più pericoloso».

Il fatto che non fosse un teorico della politica e che di questo sia stato sempre orgoglioso non vuol dire che la sua cultura, nel campo che decise di mettere al centro della sua vita, non fosse solida. Si può dire, piuttosto, che pur non sottovalutando l’importanza di quelle che allora si definivano le «questioni dottrinarie», la dottrina per la dottrina non lo interessasse: la considerava utile solo se come sbocco, alla fine, c’era la realtà, c’era la possibilità del suo cambiamento.

Un atteggiamento di fondo, questo, che peraltro si può ritrovare in tutta la sua attività di parlamentare e prima ancora di amministratore, come consigliere provinciale di Rovigo, come dirigente della Lega dei Comuni socialisti, come sindaco di Villamarzana. Anche da qui, dalla sua profonda conoscenza del ruolo e dell’importanza di quello che noi oggi chiamiamo «governo di prossimità», veniva il suo essere un acceso sostenitore di un rafforzamento delle autonomie locali.

Questa sua esperienza, questo suo essere uomo politico «radicato sul territorio», mentre al tempo stesso non aveva nulla di provinciale — possedeva un forte imprinting europeo e fu persino tra i primi a parlare di «Stati Uniti d’Europa» —, rimarrà presente in lui anche negli anni successivi. Ne sono testimonianza i numerosi interventi alla Camera — eletto nelle file del Partito socialista e poi segretario nazionale del Partito socialista unitario, fondato insieme a Filippo Turati — svolti per sostenere la necessità di un più efficiente funzionamento delle amministrazioni locali, innanzitutto attraverso un rigoroso controllo dei loro bilanci e dei controlli per i grandi lavori pubblici, per evitare abusi e illegalità.

Distante da ogni forma di massimalismo e di astrattezza, convinto della necessità di un lavoro di organizzazione sociale che partisse dal basso, Giacomo Matteotti era un riformista vero, che credeva in un graduale e progressivo allargamento della cittadinanza politica e sociale e per questo lavorava con un rigore inflessibile, senza risparmiarsi nulla. Concreto, tenace, apparentemente duttile ma irremovibile sui princìpi, come nel caso della scelta della pace e della ferma opposizione all’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Matteotti era pragmatico nella ricerca della risoluzione dei problemi e intransigente, persino radicale, dal punto di vista etico e ideale, con una convergenza tra politica e morale che per lui era imprescindibile.

Io sento che la sinistra italiana ha un debito morale nei confronti di Matteotti. Egli fu infatti sistemato nel Pantheon degli eroi della resistenza morale e politica al fascismo più per la brutale efferatezza dello strazio della sua vita che per la lucida forza delle sue idee. Matteotti non è stato solo una vittima della violenza fascista. È stato un leader morale e politico della sinistra italiana. Questo è il ruolo che la storia deve riconoscergli.

Più di una volta, una vita fa, ho avuto modo di dire e di scrivere che il riformismo è radicalità, oppure non è. Che non è solo ragionevolezza e razionalità, che non può essere solo calcolo ed efficienza. Che il riformismo è governare e amministrare bene, certo, ma è insieme capacità di accogliere passioni, di muovere sensibilità e sentimento popolare attorno a progetti reali di cambiamento. Non ho cambiato idea. E leggendo queste pagine, pensando alla vita di Giacomo Matteotti, continuo a pensare che sia giusto non cambiarla.

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