7 aprile 2019 - 07:35

7 aprile 1979: quarant’anni fa la scoperta del legame tra intellettuali di sinistra e gruppi armati

Finì in manette il vertice accademico della facoltà di Scienze politiche dell’Università di Padova, a cominciare da Toni Negri. Il ricordo di Antonio Ferrari che seguì per il «Corriere» i grandi fatti di quell’epoca

di Antonio Ferrari

7 aprile 1979: quarant’anni fa la scoperta del legame tra intellettuali di sinistra e gruppi armati Perquisizioni durante le manifestazioni di autonomi contro l’arresto di Toni Negri il 7 aprile 1979
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Devo dire che quella data di 40 anni fa, 7 aprile 1979, che segna la definitiva frattura nel mondo dell’estremismo e del terrorismo rosso, con la scoperta dei legami tra la sinistra estrema degli intellettuali con il vezzo dell’eversione e i gruppi armati, a cominciare dalle BR, mi provoca sempre reazioni ed emozioni. Primo, perché è una delle più grandi storie italiane politico-giudiziarie che ho seguito per il Corriere della Sera, direi giorno dopo giorno; secondo, perché allora sono calato, con lo sguardo del cronista ma con la mente già abbastanza allertata per neutralizzare le manipolazioni del potere, in una storia complessa e articolata; e poi perché, per molti giorni, ho lavorato con due preziosi colleghi ed amici del mio giornale: Giancarlo Pertegato e Walter Tobagi.

Ricordo che Walter, raggiungendomi a Padova dove ero arrivato da qualche giorno, mi portò la busta con il denaro per le spese, che mi mandava l’allora segretario di redazione Luciano Micconi. Infatti, ero partito all’improvviso, nella notte del 7 aprile, con un cambio di biancheria, due maglioni, due camicie, una cravatta e un giubbetto. Non c’era tempo per chiedere l’anticipo all’amministrazione del giornale. Avevo in tasca soltanto centomila lire personali, al cambio di oggi più o meno 50 euro.

La notizia era davvero clamorosa. Era finito in manette il vertice accademico della facoltà di Scienze politiche dell’Università di Padova, a cominciare dal barone Toni Negri, dai suoi assistenti Alisa del Re e Luciano Ferrari Bravo, e da numerosi personaggi dell’ultrasinistra, tra i quali Oreste Scalzone e il giornalista Giuseppe Nicotri. Che Negri fosse l’ispiratore-capo di una stagione di violenza sociale non c’erano dubbi. In un grande articolo Giorgio Bocca lo aveva descritto con particolare efficacia.

Ora, grazie alla coraggiosa inchiesta del sostituto procuratore della Repubblica di Padova Pietro Calogero era insomma partita l’offensiva giudiziaria contro i vertici dell’«Autonomia operaia organizzata», denunciando i suoi legami con il terrorismo. All’inizio si parlò di dirette connessioni con le BR, e si ipotizzò che Negri facesse parte della direzione strategica. C’era del vero, ma c’erano anche connessioni non suffragate da prove definitive. Il partito comunista di Enrico Berlinguer rispettò e sostenne le decisioni della magistratura. Anche questo contribuì all’importante e decisiva frattura nella sinistra italiana. Da una parte il PCI, dall’altra l’allegra e multicolore brigata (assai arrivista) di Potere operaio. Uno di questi mi aveva detto: «Ammettiamolo, Antonio. Chi di noi non ha mai lanciato almeno una molotov?». Risposi con una certa fierezza, o forse spocchia: «Io».

Mai, in Italia, dove facevo l’inviato da alcuni anni, mi era capitato di trovarmi in un groviglio così complicato. Avevo capito, da subito, una cosa. Calogero, con la sua intuizione e la sua determinazione era riuscito, in qualche modo, a cogliere nel segno, andando a penetrare (sicuramente a raggiungere) intoccabili santuari del potere. Ero sicuro che, prima o poi, il giudice ne avrebbe pagato le conseguenze. Non mi sbagliavo.

Rappresentando il più grande e il più autorevole giornale italiano, appunto il Corriere della Sera, mi sentivo sulle spalle una gigantesca responsabilità. Non c’erano, allora, i computer e i cellulari. Gli unici telefoni raggiungibili erano quelli del mitico albergo «Plaza», trasformato in ufficio di giorno e in comodo e confortevole rifugio di notte, e quelli dei ristoranti dove la sera ci ritrovavamo per cena («Dotto», «L’isola di Caprera», «Il Falconiere»). Più di una volta, nel frastuono del locale, arrivavano le chiamate dei giornali, ed eravamo pronti a rileggere l’articolo, a correggere, ad aggiornare come si faceva allora.

Non potete immaginare quante telefonate al «Plaza» abbia ricevuto, anche da gentili signore, soprattutto milanesi, romane e genovesi, che mi pregavano di avere occhi di riguardo per il mitico «Toni», cioè il professore che con le sue idee di fuoco («Brucia, ragazzo, brucia») faceva vibrare ormoni e passioni.

Per un cronista e un inviato è sempre difficile resistere alle pressioni, ma bisogna riuscirci. Da una parte c’era il fronte granitico delle certezze giudiziarie, dall’altra quello dei negazionisti. Ascoltare tutti ma avere antenne soltanto per la possibile verità era un’impresa. I titoli delle mie corrispondenze da Padova spiegano molto. Ne cito qualcuno: Sono accusati di essere i capi delle Brigate rosse alcuni autonomi arrestati dal giudice di Padova. Il procuratore-capo di Padova: «Ci avviamo alla soluzione». Pertini si congratula con i magistrati. Negri interrogato per cinque ore. Tre autonomi dilaniati da una loro bomba. Alessandrini indagava su Negri e Scalzone. Accusato un altro degli arrestati di Padova di essere uno dei «telefonisti» del caso Moro........ Sparano a un professore di Padova che firmò l’appello contro i terroristi..... Intervista a Calogero: «Dopo le amarezze sono sollevato».... Trent’anni al professor Negri, venti a Scalzone.....

Sono alcune tappe di una lunga storia. Ne ricordo precisamente numerosi passaggi. L’esilio a Parigi di Negri e Scalzone, però il primo era protetto soprattutto dal filosofo Félix Guattari e dall’intellighenzia dell’estrema sinistra transalpina, il secondo no. Ringrazio la casa editrice universitaria Cleup, che nella sua collana di «Scienza dell’Interpretazione» ha pubblicato, raccogliendo i miei articoli padovani di quegli anni, il libro «7 aprile», pubblicato nel 2009, a trent’anni da quei giorni convulsi. E sono particolarmente fiero della prefazione dell’ambasciatore Sergio Romano. Ha scritto: «Esistono anche gli articoli di coloro che stanno ai fatti e cercano di tenere a bada per quanto possibile le loro emozioni. Gli articoli che Antonio Ferrari scrisse da Padova, in quei giorni, per il Corriere della Sera, appartengono a questa categoria». È quanto ho cercato di fare, ma non so se ci sono riuscito compiutamente.

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