18 aprile 2019 - 21:54

Senna, 25 anni dopo Imola: amori, egoismi, imprese del pilota-leggenda

Il 1° maggio 1994 il brasiliano perdeva la vita alla curva del Tamburello. Non è mai stato ferrarista ma anche per molti tifosi del Cavallino è lui il migliore di tutti

di Enrico Caiano

Senna, 25 anni dopo Imola: amori, egoismi, imprese del pilota-leggenda
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Dorme sulla collina. A Morumbi, cimitero di San Paolo, Brasile. Da 25 anni. Come nella Spoon River di Edgar Lee Masters: un giudice, un chimico, un ottico, un blasfemo. Qui, un pilota. Solo che Ayrton Senna era «il» pilota. Uno schianto a 300 all’ora della sua Williams alla curva del Tamburello di Imola per la rottura dello sterzo — col braccio della sospensione destra che gli squassò la testa — lo hanno portato sin qui. A riposare nella sua terra a 34 anni. Pochi. Ma sufficienti a spingere «il» pilota nella leggenda sebbene non abbia mai guidato una Ferrari. Ci sarebbe riuscito anche senza quella morte violenta, straziante? Sicuramente sì. Ayrton da Silva, figlio di Milton da Silva e Neide Senna, da cui prese il cognome, era un predestinato. Probabilmente lo capì appena mise il sedere su un kart, che come la Formula 1 «si guida con il culo», diceva Niki Lauda. Parlava di guida sul bagnato. Ma poiché il bagnato è la condizione più estrema... Non a caso Senna esplose in F.1 proprio perché sull’acqua era un mago: il 2° posto nell’84 sotto il diluvio sulle stradine di Montecarlo, Alain Prost se lo ricorda ancora. Gli mangiava 6 secondi al giro e il francese vinse solo perché la corsa fu interrotta per circuito impraticabile. Quel giorno capì che nei prossimi GP avrebbe avuto un problema. Nelson Piquet, idolo dei brasiliani prima di Senna, lo capì prima ancora e quando gli presentarono il giovane Ayrton lo salutò appena. Poi nell’ambiente macho della F.1 fece girare la voce che era omosessuale. Per schiacciarlo. Senna patì, reagì scomposto, alla fine era così grande che la spuntò.

Il debutto sui kart, spinto da papà

Fu papà a metterlo sul kart. Appena ci salì, lo scricciolo Ayrton deve essersi detto: «Ah, però: questo è il mio. Ora gliela faccio vedere a tutti». Già. Altrimenti non è che vinci la prima gara che corri e poi pure il campionato. A 13 anni. Il fatto è che lui, tra mani e piedi, riusciva a fare più manovre contemporaneamente e in fretta di ogni altro nell’approcciare una curva o nell’uscirvi. Il limite a cui portava la macchina era inarrivabile. In F.1 debutto nell’84 con l’anonima Toleman. Si era fatto le ossa in Inghilterra su circuiti scivolosi persi nella nebbia, soffrendo di saudade e resistendo al padre Milton che improvvisamente si era pentito di averlo portato fin lì, fosse per un presentimento o perché invecchiava e voleva che seguisse l’impresa di costruzioni di famiglia. Ayrton gli disse no: voleva correre. Forse per una volta, anche con quel padre-padrone, riuscì a farsi assistere dal particolare magnetismo che metteva negli incontri. L’intensità che emanava quando ti parlava era fortissima. Probabilmente è vero che promuoveva l’interlocutore se nei suoi lineamenti riusciva a scorgere i tratti che aveva da bambino, come racconta Giorgio Terruzzi in Suite 200 - L’ultima notte di Ayrton Senna, in Italia il libro più completo e profondo sul pilota brasiliano. La fede in Dio di cui si faceva scudo e vanto, e che nel mondo della F.1 era irrisa, certo contribuiva a quell’atteggiamento unico. Eppure era anche un grande egoista. In gara e nella vita. Vincere le corse era tutto e per farlo a tutto era disposto.

La rivalità oltre ogni limite con Prost

Nel 1990 in Giappone buttò fuori pista a 250 orari Prost, suo compagno di squadra, e un anno dopo rivendicò il gesto: l’aveva fatto apposta per fargli perdere il mondiale. Perché l’anno prima, stessa pista, dopo un incidente sempre con Prost, aveva vinto la gara ma era stato poi squalificato e il compagno-rivale conquistò il campionato al posto suo. Il giorno però in cui il francese annunciò il ritiro dalle corse, ultimo GP della stagione vinto da Senna, il brasiliano lo volle sul podio con sé. Era il gesto di chi alla fine sapeva riconoscere il valore degli altri. Si ripetè l’anno dopo dall’interfono della F.1, lui in pista e Prost ormai telecronista: «Alain, mi manchi» disse in mondovisione. L’ansia di primeggiare nell’apprendistato in Inghilterra mandò in frantumi il matrimonio con Lilian, figlia di amici di famiglia, che per seguire lui rinunciò a un quasi sposo. Quando gli rivelò che forse era rimasta incinta, Ayrton reagì malissimo chiedendole di sbarazzarsi del problema. Lei fuggì in Brasile distrutta, forse subì un aborto spontaneo. Anni dopo perse per egoismo anche Cristine, forse la sua donna più matura: reagì con superficialità al cancro improvviso della madre di lei. E Cristine gli fece capire che poteva bastare così. Vittima del suo fenomenale istinto, Senna. Che permeava tutto e gli consegnava vittorie ma finiva per privarlo di quei tratti che definiva «la politica» e che però nelle corse servivano eccome. Le doti che aveva Prost. Che infatti vinse 4 mondiali contro i 3 di Senna, lasciò McLaren e Ferrari quando era il caso, salì sulla Williams quando era superiore alle altre F.1. Senna invece inanellava pole position: 65 alla fine! Si è parlato di presentimenti nei giorni della tragedia, di un Senna stanco, voglioso di smettere, come avrebbe confidato nella sua ultima notte alla nuova fiamma, Adriane Galisteu, osteggiata dalla famiglia. Si dice abbia cercato la morte. Esagerazioni. Falsità. Eppure dà i brividi ragionare sulla sua cabala. Sul fatto che la prima F.1 su cui era salito per un test privato fosse una Williams come quella su cui è morto. Sul fatto che lui, il numero 1, abbia debuttato su una pista il 1° di luglio del 1973 e il 1° di maggio del 1994 abbia avuto l’incidente fatale.

L’amore per la natura e il suo Brasile

Da allora sulla collina di Morumbi Ayrton è una cosa sola con la natura, che amava con la semplicità dei puri. A chi scrive raccontò così il suo paradiso marino di Angra dos Reis: «A volte hai vicino un uccello che canta e non lo senti perché la tua mente è da un’altra parte. Io, sul mare di Angra, quell’uccello lo sento perfettamente. E ascoltarlo è una gioia». Ai funerali, che unirono, come lui avrebbe voluto, il Brasile dei poverissimi (li aiutava in silenzio con atti di beneficenza cospicui) e quello della casta in cui era nato, portarono la bara l’amico Gerhard Berger, il rivale Alain Prost, i brasiliani Emerson Fittipaldi e Rubens Barrichello, «Rubinho», figlioccio in pista per Ayrton. No, Nelson Piquet quel giorno non c’era.

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