7 maggio 2019 - 22:26

La Biennale al tempo di Rugoff:
apocalittica ma con speranza

Al via sabato 11 maggio la 58esima edizione della esposizione internazionale
d’arte contemporanea, quest’anno intitolata «May You Live In Interesting Times»

di PIERLUIGI PANZA, inviato a Venezia

La Biennale al tempo di Rugoff: apocalittica ma con speranza «Can’t Help Myself», l’opera degli artisti cinesi Sun Yuan e Peng Yu allestita nel Padiglione centrale, ai Giardini (foto di Monica Silva)
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L’artista si è fatto un po’ cronista del presente e intorno alla Biennale si respira un clima millenaristico. A tener banco sono le nuove paventate apocalissi: quelle per mare dei migranti, quella generata dal surriscaldamento climatico e quelle innescabili da totalitarismi sanguinari che innalzano muri e provocano esili. Abbiamo così Marina Abramovic sommersa dall’innalzamento delle acque (Rising a Ca’ Rezzonico), i libri esiliati di Edmund de Waal (psalm all’Ateneo Veneto), l’Inferno immersivo di Vasily Klyukin (In Dante Veritas)…

Curatore dell’esposizione è Ralph Rugoff (foto di Tiziana Fabi / Afp), attuale direttore della Hayward Gallery di Londra
Curatore dell’esposizione è Ralph Rugoff (foto di Tiziana Fabi / Afp), attuale direttore della Hayward Gallery di Londra

E la 58ª Biennale? Il Padiglione centrale ai Giardini è avvolto nella nebbia diffusa dall’installazione di una delle due italiane presenti nella mostra curata da Ralph Rugoff, Lara Favaretto. Di fianco all’ingresso ci sono tre sacchi dell’immondizia abbandonati da Andreas Lolis e la ragnatela di Tomàs Saraceno. Poco oltre la soglia c’è l’opera di due protagonisti di questa edizione, i cinesi Sun Yuan e Peng Yu: è una bloody clean machine. «Costa come una Ferrari», scherza Rugoff, ma il suo sporco lavoro è spazzare senza successo il sangue (inchiostro rosso) sparso in sala, danzando come una baccante di Dioniso. Davanti gli sta un muro (sovranista?) sbrecciato e con filo spinato: è quello della città di Juàrez, la più violenta e sanguinaria del Messico, allestito da Teresa Margolles.

Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia
Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia

I 70 artisti invitati alla mostra May You live in Interesting Times, circa 20 nord americani e molti afro-asiatici, presentano quasi tutti un’opera ai Giardini (parte A) e una seconda all’Arsenale (parte B). Alcuni opere simili, come la fotografa Mari Katayama (nata con una malformazione congenita e trasformatasi in scultura vivente), che espone analoghi sexy autoritratti nei due luoghi; altri, come Shilpa Gupta, cambiano registro: ai Giardini c’è un cancello che sbatte distruggendo la parete mentre all’Arsenale c’è un’emozionale installazione sonora. La divisione tra lato A e lato B non è chiara; dipende anche dalla dimensione delle opere: è la prima volta che viene sperimentata.

«Muro Ciudad Juárez, 2010», dall’artista e fotografa messicana Teresa Margolles (foto di Monica Silva) «Muro Ciudad Juárez, 2010», dall’artista e fotografa messicana Teresa Margolles (foto di Monica Silva)

Restando ai Giardini, Dominique Gonzalez-Foerster ha costruito un diorama che simula Marte «per ricordarci — rammenta Rugoff — come diventerà la Terra in caso di disastro climatico». Tra i vari media ricompare l’arte astratta e pure quella figurativa. In questa spicca un Guernica dei nostri tempi: è quello di George Condo intitolato Facebook: «I social media — afferma — sono i responsabili dell’ascesa di una politica artificial-realistica. Ho fatto questo dipinto per esorcizzare le menzogne insite in una cultura di amici che ti danno l’amicizia senza essere tuoi amici». I social, con le loro «fake news», diventano agenti dell’apocalisse mediatica. Non mancano i video da fine dei tempi come quelli di Jon Rafman ma, nel complesso, la visita al Padiglione è meno ansiosa dei temi proposti, non annoia, segno che a queste apocalissi gli artisti credono fino a un certo punto. O, come scrive in una sua foto Pino Pascali (al quale l’omonima Fondazione dedica una mostra collaterale alle Zattere a 50 anni dalla morte): «Come si fa a vivere la paura? Bisogna farsela sotto».

«Barca nostra», allestita dallo svizzero-islandese Cristoph Büchel all’Arsenale (foto Afp) «Barca nostra», allestita dallo svizzero-islandese Cristoph Büchel all’Arsenale (foto Afp)

All’Arsenale sembra che Rugoff voglia negare lo spazio allestendo le opere intorno a grandi pannelli di legno che impediscono di vedere la prospettiva, il contrario di quanto fecero le Grafton l’anno scorso. Tra le prime opere appese c’è una foto di Anthony Hernandez sul degrado di Roma, metafora moderna delle rovine del passato (non c’entra la Raggi: la foto è del 1998-99). Ma mano che si avanza gli spazi diventano ariosi e le installazioni colorate (Kemang Wa Lehulere), suggestive, sino a quando appare, improvviso dietro un’arcata, un «elefante» di stracci di Yin Xiuzhen: rappresenta un passeggero sul sedile di un aereo (Trojan). Da qui in poi c’è arte figurativa (Martine Gutierrez, Jill Mulleday) e di nuovo i mattacchioni Sun Yuan e Peng Yu con una poltrona romana in silicone alla quale è legato un tubo di gomma che sbatte con gran frastuono. Seguono gli uomini di nylon nero di Alexandra Bircken appesi dovunque, sin alle capriate.

Non si esce soffocati da tanti allarmi: i tempi son grami ma l’arte, denunciando, è anche farmaco. Certo, fuori incombe il barcone dei migranti, arenato sulla terraferma. È Barca nostra, quella che fece naufragio il 18 aprile 2015 nel Canale di Sicilia causando la morte di 800 persone. L’ha allestita Cristoph Buchel, l’artista che due anni fa aveva trasformato una chiesa di Venezia in moschea proprio nei giorni in cui a Mosul trasformavano (ma per davvero) le chiese in moschee. Il barcone poteva venire a Milano ma qui, dove resterà un anno, sembra di casa tra le metalliche rovine dell’Arsenale. Solo le braccia tese di Lorenzo Quinn, che vanno da una sponda all’altra del Piccolo Arsenale (Building bridges), sembrano voler creare un ponte salvifico tra tutti gli opposti, sempre che non siano braccia di chi è già affogato. «L’arte va interpretata come si vuole» è un mantra di Rugoff e di tutta l’Ermeneutica. Ma, in definitiva, i nostri tempi sono interessanti? Interessanti ma non felici, sebbene gli artisti appaiano sia apocalittici che integrati e la loro Arte apocalittica ma non troppo.

La Biennale d’arte aprirà sabato e si potrà visitare sino al 24 novembre. «La rassegna costa circa 13 milioni e l’ultima ha contato 615 mila visitatori», ricorda il presidente, Paolo Baratta, giunto alla sua ottava rassegna d’arte. Iniziò con le due di Harald Seemann che trasformarono questa rassegna da una sommatoria di mostre personali in un percorso tematico, «senza pretesa di affermare una diplomazia culturale specie in una stagione in cui l’arte non è più storicizzabile e gli artisti sono onnivori». Ogni biglietto è valido due giorni e nelle sale dell’Arsenale si può incontrare personale qualificato che spiega le opere (è l’operazione «Catalogo attivo»).

La mostra

La 58ª Esposizione internazionale d’arte, dal titolo May You Live In Interesting Times, è in programma a Venezia, ai Giardini e all’Arsenale, dall’11 maggio al 24 novembre. Curatore dell’esposizione è Ralph Rugoff, attuale direttore della Hayward Gallery di Londra La mostra, organizzata dalla Biennale di Venezia presieduta da Paolo Baratta, sarà affiancata da novanta partecipazioni nazionali. Quattro Paesi sono presenti quest’anno per la prima volta: Ghana, Madagascar, Malesia e Pakistan. Il Padiglione Italia (Né altra Né questa: La sfida al Labirinto), alle Tese delle Vergini in Arsenale, sostenuto e promosso dal ministero dei Beni culturali, Direzione generale arte e architettura contemporanea e periferie urbane, è curato da Milovan Farronato.

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