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La tolleranza religiosa nei Paesi arabi
Dentro l’islam le tensioni più acute
In corso a Bologna le giornate di studio della European Academy of Religion
Anticipiamo una relazione sui rapporti tra le diverse confessioni in Medio Oriente
Pubblichiamo una sintesi dell’intervento su «Appartenenze religiose e tolleranza nel mondo islamico» che Giancarlo Rovati (docente di Sociologia generale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) tiene mercoledì 6 marzo a Bologna in una tavola rotonda nell’ambito delle giornate di studio organizzate dall’European Academy of Religion.
Qualunque riflessione sul rapporto che intercorre oggi tra le appartenenze religiose e la promozione di una rinnovata convivenza sociale, basata sul rispetto delle differenti identità e sulla promozione del loro diritto di espressione in forma individuale e associata, non può fare a meno di confrontarsi con l’evento epocale avvenuto ad Abu Dhabi il 3-5 febbraio scorso, culminato nella firma del Documento sulla «Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune» da parte di Sua Santità Papa Francesco e il grande Imam di Al-Azhar, Ahmad al-Tayyib. Il primo viaggio apostolico di un Papa nella penisola araba e il lungo dialogo con le autorità religiose che lo hanno reso possibile, hanno stabilito un terreno di intesa molto promettente per far comprendere a tutti i credenti e a tutti gli uomini di buona volontà il valore unitivo della fede in Dio e le sue conseguenze pacificanti sui rapporti umani.
Nella premessa al documento si legge infatti che «la fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e amare. Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani (…) il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere». Il Documento «ragionato con sincerità e serietà» esprime «buone e leali volontà» per invitare tutte le persone «che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana» a lavorare insieme per promuovere la cultura del reciproco rispetto, della tolleranza, della convivenza, della pace. È un invito pienamente consapevole degli ostacoli che ne impediscono la realizzazione (corsa agli armamenti, guerre, terrorismi, fondamentalismi, intolleranze, sfruttamento, povertà) e che perciò sa di remare controcorrente, scommettendo sulle aspirazioni più profonde di ogni essere umano. Tra i passaggi più impegnativi e promettenti del Documento — che puntano a imprimere una svolta nelle relazioni tra i musulmani e i cristiani d’Oriente e d’Occidente — vi è la dichiarazione solenne di «adottare la cultura del dialogo come via, la collaborazione comune come condotta, la conoscenza reciproca come metodo e come criterio». A tutti viene chiesto di «cessare la strumentalizzazione delle religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione». Al-Azhar e la Chiesa cattolica auspicano che il Documento sottoscritto insieme «sia una testimonianza della grandezza della fede in Dio che unisce i cuori divisi ed eleva l’animo umano» e «sia un simbolo dell’abbraccio tra Oriente e Occidente, tra Nord e Sud e tra tutti coloro che credono che Dio ci abbia creati per conoscerci, per cooperare tra di noi e per vivere come fratelli che si amano».
L’intento è chiaro, così come chiare sono le urgenze e le speranze che lo sorreggono. Viene però da chiedersi su quale terreno culturale e sociale stia cadendo questo seme di fratellanza nei Paesi a maggioranza islamica, dove il pluralismo religioso stenta ad affermarsi in via di diritto oltre che in via di fatto.
Per rispondere in modo attendibile a questa domanda torna decisamente utile esaminare i risultati delle indagini Arab Barometer che in modo ricorrente vengono svolte nei Paesi del Nord Africa e in alcuni Paesi del Medio Oriente. Per compiere, a titolo meramente esemplificativo, tale verifica, è opportuno considerare i risultati della terza rilevazione (effettuata nel 2012/2014) — particolarmente ricca di informazioni sugli orientamenti religiosi e il loro impatto sull’organizzazione politica — mettendo a confronto gli orientamenti verso le minoranze cristiane dei residenti in Egitto, Giordania, Iraq, Libano, Palestina.
La presenza di minoranze religiose in contesti «egemonici» (ovvero a fortissima maggioranza di una confessione religiosa) incontra in genere vita non facile, non tanto per ragioni giuridiche (che potrebbero prevedere piena libertà di culto e di espressione per tutte le comunità religiose) quanto per ragioni sociali, ovvero per l’oggettivo senso di superiorità che facilmente le maggioranze nutrono nei confronti delle minoranze e per la propensione alla «tolleranza» piuttosto che alla «accettazione» paritaria. Non sorprende allora che il riconoscimento del diritto di praticare la propria religione da parte delle minoranze è massimamente accettato in Libano, ove il pluralismo religioso vanta una lunga ed effettiva tradizione, e in misura decrescente in Egitto, Palestina, Iraq e Giordania. Se dalle affermazioni di principio si passa a valutazioni di ordine storico sullo stato «effettivo» delle relazioni tra minoranze cristiane e maggioranze islamiche si scopre che i meno ottimisti sono i libanesi, che negli scorsi decenni hanno sperimentato sanguinosi conflitti etnico-religiosi, mentre i più ottimisti sono gli intervistati in Egitto, Palestina, Iraq dove però il pluralismo è di fatto più limitato e più sparute (fin quasi all’invisibilità) sono le minoranze cristiane.
La quarta rilevazione di Arab Barometer (effettuata nel 2016 e resa pubblica nel giugno del 2018) ha coinvolto i residenti in Algeria, Egitto, Giordania, Libano, Marocco, Palestina, Tunisia (che possiamo considerare altrettanto emblematici per compiere la verifica), non esplora però le tematiche riferite in precedenza e non consente dunque confronti diretti. Resta però interessante considerare il sentimento di distanza sociale verso le persone che professano una religione diversa dalla propria (in genere quella cristiana) e la distanza sociale verso islamici appartenenti a una tradizione diversa dalla propria (scita o sunnita). Nel primo caso preferisce non avere come vicini di casa appartenenti ad altre religioni il 26% degli intervistati, mentre il 18% li accetterebbe volentieri (il restante 55% si dichiara indifferente). Nel secondo caso il sentimento di diffidenza sale al 39%, mentre il sentimento di accoglienza scende al 13% (con il 45% di indifferenti). Le difficoltà più marcate insorgono dunque all’interno del mondo islamico, i cui conflitti politico-religiosi hanno effetti traumatici anche su chi non ne è parte.