7 marzo 2019 - 21:06

Giovanni Bianconi, il nuovo libro
La sinistra morì con Aldo Moro

Il giornalista e scrittore ricostruisce per Laterza la giornata tragica del 16 marzo 1978.
Ucciso lo statista, il Partito comunista finì isolato e i gruppi rivoluzionari nell’irrilevanza

di ANTONIO POLITO

 Rossella Biscotti (Molfetta,  Bari, 1940),  Il Processo (2010 – 2011), installazione sonora,  8 ore in loop  con calchi  in cemento  di alcuni elementi architettonici dell’aula bunker del Foro Italico,  a Roma, che  ha ospitato il processo Moro Rossella Biscotti (Molfetta, Bari, 1940), Il Processo (2010 – 2011), installazione sonora, 8 ore in loop con calchi in cemento di alcuni elementi architettonici dell’aula bunker del Foro Italico, a Roma, che ha ospitato il processo Moro
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Il 16 marzo del ’78 finì il ’68. L’euforia rivoluzionaria che aveva dominato il decennio affogò nel sangue dei cinque uomini della scorta uccisi dalle Br, e poi, 55 giorni dopo, di Aldo Moro. Si chiuse così la lunga stagione in cui una sinistra che si chiamava ancora comunista poté realisticamente sperare di vincere in un Paese occidentale; e non solo sul piano politico, ma anche su quello sociale e culturale, quasi inverando l’idea gramsciana di egemonia. Dalla morte del leader democristiano, che voleva metabolizzare quella sinistra e assorbirla in una «terza fase» della democrazia italiana, cominciò il decennio che l’avrebbe invece espulsa dalla storia, con Craxi e Canale 5, con Forlani e il pentapartito, per finire poi con la sua sepoltura definitiva sotto le macerie del Muro di Berlino, nel 1989.

Giovanni BianconI, «16 marzo 1978» (Laterza, pagine 227, euro 18)
Giovanni BianconI, «16 marzo 1978» (Laterza, pagine 227, euro 18)

Quando ci si confronta con una data storica, si tende a fare ragionamenti del genere che avete appena letto. Si assume cioè il punto di vista, un po’ pomposo, della profezia che si autoavvera, come se gli eventi di allora, osservati quarant’anni dopo, contenessero già in sé, in nuce, le tracce di ciò che hanno prodotto. E invece una giornata storica è innanzitutto una giornata del suo tempo, non del nostro. E se la riguardi da vicino per com’era, non con il senno di poi, ti accorgi di due cose. La prima è l’incredibile forza che esercita, nelle vicende umane, l’eterogenesi dei fini: i protagonisti compiono azioni di cui non possono veramente prevedere l’esito, tentano di influenzarlo ma agiscono in realtà sotto un velo di ignoranza: per questo talvolta appaiono «sonnambuli» mentre si dirigono verso il ciglio di un burrone. La seconda è che ogni giornata storica poteva andare in un altro modo, anzi, in mille altri modi; e che ciò che ne risultò fu solo la combinazione di comportamenti individuali contraddittori e fallaci, di errori e omissioni.

È questo il valore di testi come quello che ha scritto Giovanni Bianconi per Laterza. Un lavoro quasi virtuosistico di ricostruzione di tutto ciò che accadde davvero quel giorno, un libro così da cronista da diventare un libro di storia. Perché del rapimento di Moro si sa quasi tutto, e lo si sa anche grazie a ciò che ne ha scritto negli anni Bianconi. Però ogni volta c’è qualcosa che ti colpisce come se non fosse nota. La vicenda di Antonio Spiriticchio, per esempio, il fioraio ambulante che si era piazzato da un paio di anni tra via Mario Fani e via Stresa, proprio dove era progettato l’agguato. La notte prima due brigatisti, Seghetti e Fiore, andarono sotto casa sua, in tutt’altra zona di Roma (erano risaliti all’indirizzo fingendosi avvocati al Pra), e gli bucarono tutte e quattro le gomme del Ford Transit che usava. Un dettaglio, certo. Ma che al fioraio salvò la vita; e che a leggerlo oggi basta a render chiaro quanto superiore fosse il livello di preparazione e di organizzazione del gruppo armato rispetto alla risposta che le forze dello Stato riuscirono a dare quel giorno e nei successivi due mesi.

Giovanni Bianconi (Roma, 1960)
Giovanni Bianconi (Roma, 1960)

Oppure la vicenda di Tullio Ancora, l’ex alto funzionario della Camera, che lo statista democristiano usava come messaggero segreto con il Pci, attraverso Luciano Barca, allora membro della direzione comunista. La sera prima di esser rapito, Moro chiese ad Ancora di pregare il Pci di non fare scherzi. Il 16 marzo avrebbe dovuto votare la fiducia al governo Andreotti. Si sarebbe trattato del primo monocolore dc con il voto favorevole del Pci, dopo due anni di governi delle astensioni e della non sfiducia. Ma le correnti democristiane imposero una lista di ministri impresentabile per i comunisti, e questi non erano più così sicuri di fare il grande passo. L’azione delle Br fu dunque decisiva nello spingere il Pci a votare a favore del governo Andreotti (perfino nella direzione che si riunì subito dopo l’attentato, Pajetta espresse i suoi dubbi su quella che chiamò «una fiducia listata a lutto»). I brigatisti colpirono dunque per affondare il connubio Dc-Pci, ma in effetti lo accelerarono. Fu di nuovo Tullio Ancora, un mese dopo il rapimento, a portare al Pci una lettera dell’ostaggio che chiedeva aiuto: «Ricevo come premio dai comunisti, dopo la lunga marcia, la condanna a morte. Non commento». Ma stavolta Barca non poteva più nulla. «Di fatto», scriverà poi, «dipendiamo in tutto e per tutto da ciò che Cossiga dice e non dice a Pecchioli. Ma io (…) sono escluso anche da queste comunicazioni».

È stata decisa la linea della fermezza, e non verrà più smentita, né dallo Stato, né dalle Br, che alla fine uccisero Moro, come forse avevano già deciso di fare fin dall’inizio, dopo la discussione critica che aveva aperto al loro interno la liberazione senza condizioni del giudice Sossi, anch’egli rapito quattro anni prima.

Persero le Br? Sicuramente sì. Dopo l’uccisione di Moro non era più possibile alzare ulteriormente il livello dello scontro, per scatenare una guerra civile che gli italiani non volevano e che non ci fu. La sconfitta politica del terrorismo rosso cominciò proprio con la vittoria della «geometrica potenza» di via Fani.

Ma forse un po’ vinsero. Perché la morte di Moro fu l’inizio della fine della collaborazione tra Dc e Pci, che infatti si interruppe nel 1979, dieci mesi dopo, quando i comunisti fecero cadere il governo Andreotti, e tornarono all’opposizione. Berlinguer annunciò la decisione della rottura (presa col voto contrario di Napolitano, Chiaromonte, Macaluso, Perna, Trivelli, Bufalini) il 17 gennaio del 1979, sette giorni prima che le Br uccidessero Guido Rossa, l’operaio del Pci e sindacalista Cgil dell’Italsider di Genova che aveva denunciato un brigatista infiltrato in fabbrica. Così che, in quello spazio temporale tra il sacrificio della più celebre vittima democristiana e quello della più celebra vittima comunista del terrorismo rosso, si compì nei fatti il disegno dell’estremismo che aveva contrastato fin dall’inizio l’evoluzione democratica del Pci. Dalla morte di quel progetto di compromesso non nacque però una nuova sinistra rivoluzionaria, tutt’altro. Il ‘79 fu anzi il canto del cigno della sinistra in tutte le sue manifestazioni. Quattro mesi dopo in Inghilterra vinse Margaret Thatcher. Un altro anno e alla Casa Bianca arrivò Ronald Reagan.

Di tutti i calcoli e le macchinazioni del 16 marzo 1978, nota con implicita e amara ironia Bianconi chiudendo il libro, alla fine la previsione più azzeccata resta quella metereologica, diramata regolarmente alla fine della giornata: «Sull’Italia settentrionale e su quella centrale molto nuvoloso o coperto. Nevicate sull’arco alpino. Attività temporalesca in Sardegna. Sulle regioni meridionali nuvolosità in graduale intensificazione. Venti forti. Mari generalmente agitati». Brutto tempo in arrivo.

Gli incontri

Il libro di Giovanni Bianconi sarà presentato a Roma presso la fiera Libri Come sabato 16 marzo alle ore 18, in sala Studio 2, con Gianni Cuperlo, Marco Damilano, Monica Galfré. Un secondo incontro si svolgerà a Roma il 29 marzo alle ore 17 presso la Treccani, con Giuliano Amato, Pier Ferdinando Casini e Massimo D’Alema

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