ANTICIPAZIONE
Vanni Santoni, il nuovo libro
Ritorno a casa. Dal padre
Esce il 12 marzo per Mondadori «I fratelli Michelangelo», epica familiare e avventurosa
Antonio chiama i figli a raccolta: rispondono in quattro (su cinque)
Rimettere le cose a posto: è questa la ragione che spinge Antonio Michelangelo a riunire i suoi cinque figli, avuti da quattro donne, in una villa primo novecentesca sulle alture di Vallombrosa, in Valdarno. Vallombrosa è una località di grande risonanza poetica, cantata da Milton, d’Annunzio e da quegli autori (Wordsworth, Shelley, Henry James) che fecero del Grand Tour un topos letterario e un tornante ineluttabile della loro formazione. Ma già Ariosto aveva scelto Vallombrosa come una delle tappe dell’intreccio che conduce Ruggero a ritrovare Bradamante. L’incantesimo del luogo agisce ugualmente ne I fratelli Michelangelo, le cui trame multiple — una per ciascun figlio — attraversano l’India, l’Indonesia, la penisola scandinava, Berlino, Londra, Milano, Roma, ma acquistano senso solo su quelle cime appenniniche. Ciascun figlio ha una ragione per odiare il padre e per ignorare l’enigmatica convocazione a Villa Fortuna: tutti, tranne la primogenita Aurelia, decidono tuttavia di convergere dai quattro angoli del pianeta a questo luogo primigenio per l’incontro con padre e col destino. Ci sarà di mezzo un’eredità? Antonio intende comunicare le sue ultime volontà?
L’opera di Vanni Santoni si presenta, in effetti, come un’epica familiare e nello stesso tempo come un romanzo di avventura che ha al centro la quête fondamentale, quella del padre. È una ricognizione sulla casa e l’identità, sulla domanda inaggirabile che si pone Enrico, il più giovane dei figli: «Cosa siamo poi, siamo quello che abbiamo fatto, quello che abbiamo letto, che abbiamo detto? Siamo quello che abbiamo avuto in eredità? Eredità di geni o di pratiche, o di modi d’essere? Siamo la nostra educazione, chi abbiamo amato, chi è che diceva quest’altra stronzata... siamo l’idea che gli altri hanno di noi, siamo quello che c’è scritto su Internet di noi...». Ma chi è davvero Antonio Michelangelo? Deus ex machina della vicenda, ingegnere venuto dal nulla, ex partigiano (sarà vero?), dirigente all’Ibm, all’Olivetti e poi all’Eni, infine artista, scrittore e regista (ma di un unico libro e di un unico film), la sua vita pubblica è il contraltare di una rocambolesca vita privata, costellata di mezzi fallimenti e derive: proprio la deriva sembra essere una delle figure più rappresentative di questo romanzo costruito (o sarebbe più opportuno dire: spezzato) in quattro onde narrative, ciascuna con un suo narratore (i quattro figli di Antonio che, nel viaggio verso Vallombrosa, ripercorrono le loro esistenze) a cui si aggiunge la cornice in cui la voce narrante tende a sovrapporsi a quella di Antonio. Uno spezzarsi di voci che trasforma la vicenda familiare in flotsam, massa di oggetti naufragati nell’oceano.
Questa dinamica è perfettamente incastonata e riassunta, come mise en abîme, nel capitolo indiano del libro, dove il figlio Luis ripercorre la sua avventura in un Paese che non ha più nulla di mistico e arcaico. Luis non sceglie Delhi per ritrovare sé stesso o per incontrare il divino, bensì per un progetto di partnership commerciale italoindiana che si rivelerà disastrosa. Non è l’India di Pasolini o Manganelli, e nemmeno quella di Franchini o Montefoschi: Santoni descrive piuttosto, e con grandiosa efficacia, l’India della globalizzazione, delle opportunità di ricchezza ad alto rischio. È un Paese dove miseria e inquinamento la fanno da padroni e dove gli holy man vengono derubricati a ex sessantottini che laggiù hanno trovato un paradiso artificiale raggiungibile con l’Lsd anziché con la meditazione. In quest’India ipermoderna non ci si ritrova, ci si smarrisce: il trekking nell’Himachal Pradesh organizzato da Luis perde qualsivoglia connotazione ascetica e diventa semplice occasione di «teambuilding»; lo stesso Luis, partito con un sogno di facile benessere, torna con un grumo nero di sconfitte e indegnità.
La dinamica centro-periferia, che costituisce l’intelaiatura geograficamente più evidente di questo sorprendente romanzo, è ribadita anche a livello linguistico con la mimesi del fiorentino e del milanese, con inserzioni da stili e lingue diverse (dall’inglese all’hindi). Attraverso le esistenze frastagliate dei quattro fratelli, Santoni ricostruisce quattro mondi lontani e coesistenti: gli ambienti degli intellettuali mancati, quelli di un turbocapitalismo tanto disincantato quanto sprovveduto, quelli dell’arte contemporanea e quelli omosessuali, introducono ad altrettante — incompiute — educazioni sentimentali.
I personaggi precari con cui Santoni esordì nel 2007 sono diventati adulti e la micronarrazione, che ritroviamo qui nella sezione finale, cede il passo a un romanzo dall’ampio respiro teso a rivedere, non senza ironia, i grandi padri ottocenteschi: Dostoevskij è occhieggiato fin dal titolo, Balzac è più volte richiamato, la stessa metafora della ricostruzione di una biblioteca plausibile è uno dei fili conduttori del romanzo, che culmina nell’ascesa finale da Vallombrosa verso il Saltino.