30 marzo 2019 - 20:52

Giulio Einaudi
L’impresa civile dei libri

Il 5 aprile 1999 moriva l’editore e «l’uomo più influente della cultura dopo Croce»
Da anziano diceva di avere davanti dagli occhi Pavese e Calvino. Gli scialbi? Dimenticati

di PAOLO DI STEFANO

Giulio Einaudi  L’impresa civile dei libri Giulio Einaudi a Venezia nel 1996 (Foto Leonardo Cendamo / Getty Images)
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Un giorno del 1981, Giulio Einaudi decise che un suo giovane redattore, Roberto Cazzola, avrebbe dovuto scrivere tutti i risvolti dei nuovi libri e delle ristampe. Prima di affidargli quel compito, volle metterlo alla prova chiedendogli di riassumere la voce «Metrica» dell’Enciclopedia Einaudi. La prova fallì miseramente e il giovane Cazzola si giustificò con un biglietto scherzoso: «Della metrica ho letto senza trarre profitto, / se non colsi il costrutto non ne venga un rimbrotto». Einaudi glielo restituì dopo aver sottolineato la parola «rimbrotto» con un punto esclamativo a fianco. «L’indomani — ricorda Cazzola — mi diede l’incarico».

Natalia Ginzburg a Mantova nel 1988 (Leonardo Cendamo / Getty Images)
Natalia Ginzburg a Mantova nel 1988 (Leonardo Cendamo / Getty Images)

Qualcuno, a ragione, avrebbe potuto pensare che fosse un tipo un po’ svitato, Giulio Einaudi: certamente reagiva in modo imprevedibile di fronte alle persone. Poteva essere seduttivo, generoso e irritante, scontroso fino alla maleducazione: dava a tutti del tu ma non chiedeva mai di fare altrettanto. Da vecchio, quando succedeva che i suoi occhi gelidi si sciogliessero in lacrime, diceva che aveva sempre davanti a sé alcune facce: Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Felice Balbo, Elio Vittorini, Italo Calvino… «Gli scialbi no, quelli li ho dimenticati». Chissà che cosa coglievano nelle facce i suoi occhi azzurri: certo andavano al di là di ogni tratto visibile. Più che occhi erano radar. Il giorno del 1949 in cui il giovanissimo Giulio Bollati, allievo a Pisa di Giorgio Pasquali e di Luigi Russo, entrò in via Biancamano, di passaggio verso Parigi, Einaudi lo squadrò e gli chiese: «Dove vai?», «Vado a Parigi» fu la risposta. «A far che cosa?». E l’editore gli propose di restare come redattore. «Quando comincio?». «Domattina». Giulio II sarebbe diventato l’erede di Pavese, il braccio destro dell’editore, il direttore generale: condivideva con Giulio I l’aria signorile e aristocratica, ma a differenza dell’editore metteva a disposizione di tutti la sua vocazione pedagogica e aveva straordinarie qualità diplomatiche. Bollati diceva che l’editore assomiglia a un direttore d’orchestra, e lui stesso veniva chiamato il Maestro. Agnese Incisa, che lavorò nella segreteria Einaudi dal 1974 e fu poi compagna di Bollati, dice oggi: «Einaudi era un grandissimo direttore d’orchestra, bisbetico come Toscanini».

Tanti ottimi editori ha avuto l’Italia, ma due cose hanno distinto Giulio Einaudi dagli altri: aveva una sua sensibilità rabdomantica per riconoscere non solo la qualità dei libri (spesso annusandoli soltanto) ma anche il valore delle persone, e riuscì a circondarsi dei migliori molto prima che fossero i migliori; con la sua maieutica della «concordia discorde» (copyright Pavese) ebbe la capacità, attorno al tavolo ovale dei mercoledì, di far nascere dalla condivisione e dagli scontri di menti eccelse (spesso geniali) una grande impresa culturale e civile, una delle maggiori in assoluto. Non un’impresa economica. Gian Arturo Ferrari ricorda che una volta Alberto Moravia, fedelissimo di Bompiani, disse: «Einaudi è diverso da tutti gli altri perché non ha mai pubblicato un libro per soldi». Aveva ragione. Per quella aristocratica indifferenza al denaro, lo stesso Ferrari parlò di Einaudi come di un megalomane. Asor Rosa lo corresse: «Eccezionale». Era il coraggio di pensare in grande. Anche troppo.

Giulio Einaudi con Pier Paolo Pasolini (Foto Olycom)
Giulio Einaudi con Pier Paolo Pasolini (Foto Olycom)

Al punto che una delle poche volte in cui quella grandezza gli sfuggì di mano e lo condusse a una decisione dai più non condivisa, impostare l’Enciclopedia ed elaborarla altrove (il direttore, Ruggiero Romano, era a Parigi), Bollati se ne andò. «Giulio Einaudi — disse — era contento di poter giocare su due tavoli». Giocò, avvicinandoli, sulla diversità di carattere e/o di visione tra Pavese e Vittorini, tra Pavese e De Martino, tra Vittorini e Calvino, tra Calvino e Bollati («litigavamo spesso» confidava Giulio II), tra se stesso e molti. Guido Davico Bonino gli ha dedicato pagine sulfuree: «Aveva una straordinaria intelligenza prensile ma era un uomo insopportabile». Insopportabile, capriccioso, cinico, altero, beffardo, tutto ampiamente raccontato dalla ricca aneddotica. Eppure l’aggettivo «prensile» è il più efficace. Il risultato dei dispetti e dei litigi è che, nonostante tutto, oggi, vent’anni dopo la sua morte, non si riesce a pensare a Giulio Einaudi senza pensare, insieme, alla costellazione degli einaudiani, quasi avesse costruito il proprio ritratto a futura memoria come un mosaico composto dalle facce degli amici. E viceversa, non si riesce a immaginare ogni suo singolo autore o consulente (anche i maggiori) se non in chiave einaudiana. Strutturalismo in natura: un insieme in cui tutto si teneva. L’editore viveva di luce propria e però anche della luce riflessa dai suoi, e lo stesso valeva per ciascuno dei suoi, piccoli o grandi o giganteschi (Calvino compreso). Era questo il suo capolavoro, riassunto nell’insieme pauroso dei titoli e delle collane del suo catalogo. In virtù di tutto ciò, anche per la capacità di concepire l’editoria come forma di un contenuto — secondo Roberto Calasso, il timoniere di Adelphi —, Einaudi è stato, dopo Croce, l’uomo più influente della cultura italiana.

Un grande intellettuale senza grande cultura propria che però sapeva gestire, con poche parole, la cultura degli altri. E nessuno, neanche i tanti che lo odiavano, gli ha mai negato la lungimiranza del genio: «L’editoria è come l’agricoltura — dice Ernesto Ferrero, autore de I migliori anni della nostra vita, quelli vissuti in Einaudi —, si semina oggi per raccogliere non fra tre mesi ma fra diversi anni». Investiva oggi per il futuro civile del Paese: per questo non poteva lasciarsi scalfire dalle mille copie di Calvino o della Ginzburg. Avesse ragionato (come quasi tutti oggi) budget alla mano, molti degli scrittori da antologia che leggiamo sarebbero finiti subito al macero. Senza dimenticare gli errori: a cominciare dal rifiuto di Se questo è un uomo, rimediato solo nel 1958 quando, con non poche riserve, ne furono tirate 2.000 copie: ristampato solo nel marzo 1960 (!), oggi vende sulle 60 mila copie l’anno.

Alda Merini, Roberto Benigni e Giulio Einaudi (Foto Contrasto)
Alda Merini, Roberto Benigni e Giulio Einaudi (Foto Contrasto)

La direzione d’orchestra del mercoledì, pur con le sue défaillances e le idiosincrasie ideologiche, era un incrocio fitto di letture e pareri: uno scienziato leggeva un romanzo e un romanziere leggeva il saggio scientifico. Lavoro collettivo ormai impensabile. In vecchiaia, Bobbio confidò che i mercoledì lo avevano arricchito molto più dell’università. Poi a tirare le fila di quella «concordia discorde» era sempre lui, l’editore, con pochi fedeli. Primo tra tutti il direttore commerciale Roberto Cerati, eminenza grigia e uomo delle tirature che non credeva nei grandi numeri, uomo dei bilancini, un «farmacista» delle poche ma costanti ristampe: «Lui sì diverso — ha detto il suo amico Giuliano Scabia —, lui sì francescano, un maestro». Un maestro arrivato in casa editrice nel 1944 come strillone del «Politecnico», amico di Vittorini, subito catturato dall’editore, salvo poi insegnare all’editore quale fosse la «linea» dell’Einaudi, la «funzione Einaudi» nella cultura italiana (lo scrive Mauro Bersani nella prefazione a una raccolta di lettere). Se Cerati era il monaco che predicava il Verbo ai librai e il cui motto era «esserci, se possibile, sempre, apparire mai», Einaudi era «il grande aristocratico capitano, disposto all’alto mare burrascoso e ai naufragi, con la ciurma più difficile ed esperta» (sempre parole di Scabia).

Quando ormai non era più il padre-padrone e la casa editrice, dopo il commissariamento, passò alla Elemond, la burrasca era passata ma il capitano aristocratico doveva fare i conti con nuove istanze che non sempre condivideva e che cercava di ostacolare. Piero Gelli, direttore editoriale dal 1990, lo ricorda muoversi in via Biancamano come «il sovrano di un regno in disgregazione, tra Pirandello e Cechov, immutabile e innocente come un bambino: curioso, dispettoso e perfido». Gelli aveva lavorato per anni con l’altro guru dell’editoria, il grande concorrente milanese dello Struzzo, Livio Garzanti, e oggi gli viene facile il confronto: «In Garzanti la vita era vissuta come sofferenza, disagio, come l’inferno in gran dispitto; in Einaudi, anche i suoi momenti più critici, difficili e tristi non riuscivano a frenare un irresistibile entusiasmo di vivere». Neppure negli anni berlusconiani della casa editrice il vecchio capitano abbandonò la nave. Era il novembre 1994 e, unici tra tutti gli autori, Corrado Stajano e Carlo Ginzburg (il figlio del fondatore Leone), dissero addio: venendo a sapere, dopo qualche anno, che l’editore li aveva invidiati.

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