29 ottobre 2018 - 15:33

Land grabbing, tutti all’assalto delle terre fertili

Il fenomeno non è nuovo ma la situazione peggiora. Il motivo? Il cambiamento climatico riduce la disponibilità di suoloIl rapporto di Focsiv: 88 milioni di ettari (otto volte il Portogallo) sottratti dal 2000. I dubbi sulla legittimità dei contratti

di Fausta Chiesa

Richard Ngombo Masimula è un cooperante del Cospe nel Regno di eSwatini (si scrive proprio così), in quello che fino a pochi mesi fa – prima che il re decidesse di cambiare il nome - si chiamava Swaziland: un piccolo Paese dell’Africa australe che confina a Nord con il Sudafrica e a Ovest e a Sud con il Mozambico. Masimula è il responsabile dei progetti per l’acqua. Perché nel suo Paese l’acqua è un problema: ce n’è poca e il 95 per cento è utilizzata per l’agricoltura e per l’irrigazione delle piantagioni di canna da zucchero. «Per averla - denuncia - la gente sta vendendo i terreni. Si fa leva sulla scarsità di questa risorsa per accaparrarsi la proprietà delle terre». Il land grabbing è arrivato anche in questo piccolo Stato che ha poco di un milione di abitanti. «Le espulsioni - spiega il project manager del Cospe Fabio Laurenzi - colpiscono la parte di popolazione più vulnerabile per fare spazio a progetti del re o di compagnie private, nella stragrande maggioranza a capitale prevalente straniero (Sudafrica, Regno Unito, Taiwan, Stati Uniti)».

Il fenomeno del land grabbing non è nuovo, ma si sta aggravando. «La questione è emersa con forza dal 2008 per la crisi finanziaria – spiega Andrea Stocchiero, responsabile Policy di Focsiv – con lo spostamento dei capitali da settori in perdita come quello immobiliare ad altri settori redditizi come la produzione del cibo. I capitali cercavano il profitto. Ora il fenomeno si sta aggravando perché si stanno incrociando due tendenze: le terre disponibili e fertili, a causa del climate change, diminuiscono. E se diminuisce una risorsa finita, scatta la gara all’accaparramento. La tendenza è ormai strutturale e di lungo periodo». La Federazione degli Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario (Focsiv), anche su indicazione della rete internazionale di agenzie cattoliche di cui fa parte, si sta interessando al diritto alla terra delle comunità locali e sta studiando a fondo il fenomeno. In collaborazione con Coldiretti, ha pubblicato il report «I padroni della terra» che ne dà una fotografia precisa: dagli anni 2000, sono stati sottratti alle comunità locali 88 milioni di ettari di terra fertile. In 18 anni, un’estensione pari a otto volte il Portogallo è passata di mano.

Tecnicamente è tutto legale. «Le terre sono cedute dai contadini attraverso contratti di vendita o di affitto», spiega Stocchiero. Ed è grazie all’analisi minuziosa dei contratti che il report ha potuto essere così accurato nel numero di ettari sottratti. «Il merito - dice Stocchiero - è del database Land Matrix, che esiste dal 2012 ed è costruito sulla base di informazioni raccolte a livello locale da organizzazioni della società civile (in gran parte organizzazioni di contadini) e da centri di ricerca: due reti che collaborano. L’iniziativa ha carattere privato ed è sostenuta dall’agenzia della cooperazione tedesca (Giz, Gesellschaft für Internationale Zusammenarbeit)». Chi sono i cattivi? Non è facile scoprirlo, perché le aziende private o i fondi sovrani si nascondono dietro imprese schermo. «Gli stranieri spesso agiscono come investitori secondari - spiega Stocchiero - mentre l’investitore primario può essere un locale o una sussidiaria».

Ecco perché analizzare il land grabbing è complesso: il fenomeno avviene in gran parte in modo opaco, con collusioni tra governi locali e imprese o attraverso complicate scatole cinesi. Il lavoro certosino di lettura dei contratti ha permesso di risalire all’origine. E così si è scoperto che tra i maggiori predatori oltre agli Stati Uniti, che detengono il primato, ci sono il Regno Unito, i Paesi Bassi e la Cina, ma anche Paesi emergenti come la Malesia, l’India e il Brasile. Tra i primi dieci Paesi che subiscono il land grabbing ci sono soprattutto i Paesi poveri dell’Africa, come la Repubblica Democratica del Congo, il Sud Sudan, il Mozambico, la Repubblica del Congo e la Liberia, mentre in Asia il Paese più coinvolto è la Papua Nuova Guinea, ma non mancano anche i Paesi come il Brasile e l’Indonesia e Stati dell’Europa orientale.

E l’Italia? Anche il nostro Paese, in piccolo, è nel land grabbing: le aziende italiane hanno comprato o affittato un milione e 100 mila ettari con 30 contratti in 13 Paesi. La maggior parte dei contratti delle imprese italiane sono distribuiti in Paesi dell’Africa e in Romania. I primi cinque sono Gabon, Liberia, Etiopia, Senegal e Romania, che contano assieme per il 75 per cento del totale delle estensioni acquisite o affittate. Il maggior numero di contratti, ma per appezzamenti relativamente piccoli (dai mille ai 20 mila ettari), sono in Mozambico e Romania. Le imprese italiane che investono sono principalmente dell’agroindustria e del settore energetico.

I contratti saranno legali. Ma sono anche legittimi? Il report ha anche una parte cospicua che riguarda le norme internazionali sul possesso della terra e i diritti delle comunità locali. «Convenzioni, princìpi e linee guida - sebbene in forma non vincolante - stabiliscono norme di condotta responsabile per gli Stati e le imprese al fine di tutelare i diritti umani, tra cui l’accesso e il possesso alla terra, quale mezzo per assicurare condizioni di vita adeguate». La buona notizia? L’Onu è «sul pezzo» e ha lanciato l’iniziativa «Un Treaty» per arrivare a un trattato vincolante su diritti umani e imprese che comprenda la questione del land grabbing e dei diritti sindacali. Ma non solo. «In alcuni casi - dice Stocchiero - i compratori consentono alle comunità di rimanere e migliorano le condizioni investendo anche in strade, acquedotti, fognature, centri sanitari».

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