18 marzo 2019 - 18:18

Don Zuppi: «I migranti? Non è solo un problema di sicurezza»

Il vescovo di Bologna, che per tutti è don Matteo: «In città c’è molta accoglienza, ma anche tanta paura. Serve superare il clima di scontro»

di Marco Ascione

Don Zuppi: «I migranti? Non è solo un problema di sicurezza» Le due Torri di Bologna: Garisenda (a sinistra) e degli Asinelli
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I simboli contano. I portici, per esempio. «Che cosa incredibile sono i portici, io mica lo sapevo: sono pubblici. Tutti possono passarci, ma la proprietà è dei privati che li gestiscono a nome della comunità». Così dice don Matteo (che oggi sarà all’evento in programma alle ore 18 all’Antoniano di Bologna, seconda tappa di Buone Notizie). Poi le Torri. Degli Asinelli, ma anche Altabella e Prendiparte, vicine di casa della Curia. Sempre lì, rassicuranti, sopra i tetti di Bologna. «Biffi le chiamava orgoglio dell’uomo, come a dire che erano fatte per contrapporsi in qualche modo al potere della Chiesa. Io dico anche ingegno dell’uomo». E piazza Maggiore. «Lì ci siamo tutti: il Comune, San Petronio e, appena discostata, l’università, con l’Archiginnasio. Per collaborare come è sempre stato in questa città. Anche quando forse non sembrava». La città dei tanti Peppone e don Camillo, variamente declinati e apparentemente opposti. E di cui sotto le Torri resta un’eco importante.

Don Matteo Zuppi, che poi è anche il vescovo di Bologna (come è ormai noto se lo si chiamasse eccellenza reverendissima non si volterebbe neppure: meglio don Matteo) ha un’agenda fitta, tra Case dell’accoglienza e centri per gli anziani. «Umanesimo», nel suo discorso, è la chiave di volta. «Umanesimo» versus «individualismo». Gli piace la parola volontariato in purezza. Ancor prima dell’espressione Terzo settore, di cui tesse ampie lodi. Snocciola: «Vogliamo parlarne? L’Opera padre Marella, l’Antoniano, Villa Pallavicini, le Case della carità. Ma anche realtà laiche, come l’associazione Sokos. A Bologna il tessuto è ricco».

Prima dell’intervista c’è il tempo per una sosta al bar di via Altabella, sotto la Curia. Caffè, cornetto e la gag con un signore di mezza età e dall’accento bolognese, che lì fuori tende la mano per la carità. Un habitué in sosta fissa davanti al cancello dell’arcivescovado. «Don Matteo perché non mi dà tutti gli spiccioli? Lei è il miglior vescovo di Bologna», declama. Lui sorride: «Visto? Basta poco. Una moneta in più…». ln nome di papa Francesco, Zuppi, romano con un trascorso importante nella Comunità di Sant’Egidio, occupa la cattedra che un tempo fu di Giacomo Lercaro e Giacomo Biffi. Due porporati di stampo conservatore (sebbene Lercaro sia stato poi rimosso per le critiche ai bombardamenti in Vietnam) e in quella stessa Diocesi che lanciò Dossetti. E perdipiù nella capitale dei cattolici adulti (copyright Romano Prodi), meglio noti anche come cattolici di centrosinistra. Categorie che Zuppi, che pure verrebbe da definire di scuola dossettiana, non vuole adottare per la Chiesa e per se stesso, «perché è come guardare la realtà che ci circonda con gli occhiali di un altro tempo».

A proposito di Biffi, per usare una sua famosa definizione, Bologna e l’Emilia sono ancora sazie e disperate?

«Questa cosa me l’ha spiegata bene Pierluigi Bersani».

Che cosa le disse?

«Che quel graffio di Biffi fu utile a capire che alcuni presìdi di sicurezza erano stati messi in discussione in Emilia. Non è un caso che qui si sia svolto il secondo processo più importante per mafia».

E oggi?

«Mah… oggi siamo anche un po’ meno sazi… C’è un patrimonio di umanesimo profondo che fatica a trovare a Bologna una dimensione di comunità. C’è molta accoglienza ma anche molta paura».

Paura di cosa?

«Sono le stesse paure del resto d’Italia. Quella degli immigrati è la più evidente. Paura e individualismo rischiano di corrodere una rete che è sicuramente grande. Mi ricordo, appena arrivato, quando andai all’Istituto Salvemini. Lì dove l’aereo aveva centrato la scuola uccidendo gli studenti oggi c’è la sede di un gruppo di associazioni che si occupano del bene del prossimo. Un fatto che racconta tanto. E così tipicamente bolognese».

A proposito di migranti lei è stato protagonista, suo malgrado, di una polemica con il sottosegretario leghista Lucia Borgonzoni, bolognese, che in un dibattito pubblico si è alzata e se n’è andata quando lei doveva parlare. Tema: l’immigrazione.

«Quella polemica è nata sul nulla. La Borgonzoni doveva prendere un treno».

Diciamo allora che sui migranti le sue posizioni non sono propriamente quelle di Salvini. Lei ha più volte detto che è inutile la distinzione tra profughi che scappano dalle guerre e migranti economici.

«Io dico che è un errore affrontare quello dei migranti solo come un problema di sicurezza. Se vuoi crescere devi abbattere i muri. Così come fece Bologna nella sua fase di espansione ai primi del Novecento. Bisogna avere il coraggio di dire: prima il futuro. Un futuro in cui c’è spazio per tutti».

E che cosa pensa dell’opera delle navi ong nel Mediterraneo?

«Io penso che se uno affoga va salvato. I fenomeni bisogna gestirli. La guerra tra poveri c’è perché non si combatte la povertà».

Che peso attribuisce alle minacce che ha ricevuto per l’apertura all’ipotesi di una moschea a Bologna?

«Su certi temi c’è un clima di scontro e poco desiderio di capire. È come se entrare nella complessità dei problemi significasse non volerli affrontare energicamente».

Lei ha reinvestito parte degli utili della Faac, l’azienda di cancelli automatici di proprietà della Curia, in un progetto di reinserimento al lavoro dei disoccupati. Un’operazione fatta insieme con il sindaco di Bologna Virginio Merola. Funziona?

«Stiamo ottenendo buoni risultati. Con casi anche curiosi come quello di due detenuti assunti da una coop che si occupa di rimettere in ordine l’archivio del tribunale. Ma c’è ancora da fare. Soprattutto sul fronte dell’aiuto all’autoimprenditorialità».

Come si incrocia il vostro progetto con il reddito di cittadinanza?

«Il reddito di cittadinanza è qualcosa che dobbiamo scoprire ma che potrebbe in parte andare nella stessa direzione. Bisogna aiutare le persone a stare in piedi da sole».

I cristiani devono rifarsi partito per fare passare le loro idee?

«No, sarebbe accanimento terapeutico».

Però quello che lei pratica è un ruolo pubblico della religione.

«La religione ha un ruolo pubblico per la dimensione sociale della Chiesa, ma liberata da qualunque collateralismo. Poi ognuno, certo, ha le proprie sensibilità. I cristiani devono portare la loro visione nel rispetto di tutti».

Tornerebbe al centro sociale Tpo? La visita di un vescovo ha fatto un certo effetto.

«Certo che ci tornerei, bisogna superare gli steccati. Non c’era nulla di male ad accettare l’invito. Anche se prima di andarci ho chiesto: “Pagate regolarmente l’affitto?”».

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