6 luglio 2018 - 21:27

«Mio fratello prete ha adottato 4 figli: io, i libri ed è nato Festivaletteratura»

Luca Nicolini, libraio e creatore della manifestazione mantovana, racconta la storia di una famiglia speciale e di una passione così divorante da essere divenuta una missione

di Stefano Lorenzetto

Luca Licolini
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Ha inventato e presiede dal 1997 il Festivaletteratura, che ogni settembre, da un mercoledì a una domenica (quest’anno dal 5 al 9), trasforma Mantova nella capitale mondiale degli scrittori. I suoi concittadini lo vorrebbero sindaco. Il centrosinistra ci ha provato almeno tre o quattro volte a offrirgli la candidatura, senza successo. Da venditore e divoratore di libri, Luca Nicolini preferisce continuare a scrivere il romanzo di famiglia cominciato dal padre Giuseppe, detto Peppo, morto nel 1978, storico capogruppo dell’opposizione in Consiglio comunale, che rifiutò sempre un posto di parlamentare della Dc a Roma per non separarsi dalla famiglia e ancor oggi è ricordato perché girava per la città in bici, tenendo seduta sul tubo una bimba di 3 anni e dicendo a tutti, con orgogliosa arguzia: «È la figlia di mio figlio prete». Sandra è diventata l’ultima dei cinque figli del notaio Nicolini. Oggi ha 55 anni ed è maestra d’infanzia. Sua madre, una povera popolana senza marito della Borghesiana, quartiere disagiato di Roma, in punto di morte la affidò a don Giovanni, il primogenito del professionista mantovano, che dava una mano in parrocchia mentre studiava teologia alla Gregoriana dopo essersi laureato in filosofia alla Cattolica. «Ma non da sola: con altri tre figlioletti», ricorda Luca Nicolini. «E a tutti mio fratello trovò una famiglia adottiva qui in città».

Forse dovevo intervistare suo fratello.

«Concordo. Anche Giovanni dice sempre d’aver avuto due padri. Il secondo è don Giuseppe Dossetti, il deputato dc che diventò sacerdote».

Oggi che cosa fa don Giovanni?

«Il cappellano del Policlinico Sant’Orsola a Bologna, dove lo chiamano “il prete dei poveri”. È assistente nazionale delle Acli. Ha fondato le Famiglie della Visitazione e una cooperativa di detenute».

Fra voi ci sono 13 anni di differenza.

«Io sono un ex voto. Nel 1951 mio padre ebbe un brutto incidente d’auto. Mia madre, che sedeva al suo fianco, fu data per spacciata. In un momento di lucidità, giurò che, se si fosse salvata, avrebbe cercato di avere un altro figlio».

A chi lo giurò? Alla Madonna?

«Direttamente al Padrone, penso».

Come le è venuta l’idea del Festivaletteratura?

«Copiando da Hay-on-Wye, un paesino del Galles che conta appena 1.800 abitanti e una trentina di librerie».

Ospiti importanti previsti per quest’anno?

«Avremo Elif Batuman, nata a New York da genitori turchi, autrice del romanzo L’idiota, finalista al Pulitzer prize 2018 per la fiction. Con lei, un altro statunitense: Chris Offutt. Puntiamo a ripetere il successo riscosso nel 2017 con George Saunders e il suo Lincoln nel Bardo, libro sorprendente e difficile, vincitore del Man Booker prize».

Si partecipa su invito?

«Esclusivamente. Anche se arrivano parecchie pressioni da editori e scrittori».

Ricevete molti rifiuti?

«Pochi e per motivi logistici. In 15 anni non siamo mai riusciti ad avere Philip Roth, per esempio, ma solo perché era troppo anziano, non amava viaggiare o stava scrivendo qualcosa di nuovo».

Il Festivaletteratura costa tanto e rende poco, oppure costa poco e rende tanto?

«Nessuna delle due. Facciamo con quello che abbiamo. Non creiamo né utili né buchi. Siamo privi di paracadute. Regione, Provincia e Comune coprono appena il 10-12 per cento dei costi».

Perché del fondatore Nicolini si sente parlare raramente?

«Per carattere amo il lavoro di gruppo. I sette amici che mi affiancano in questa avventura, fra i quali mia moglie, mi hanno scelto come presidente solo perché abito vicino al carcere di via Poma».

Risponde in solido degli atti che firma.

«Noto che ha capito perfettamente».

Amici di Mantova mi hanno detto che lei e sua moglie siete cattolici praticanti.

«L’esempio di mio padre qualcosa ha lasciato. Passando davanti alla basilica di Sant’Andrea, vedevo sempre la sua bicicletta appoggiata con la pedivella al marciapiede. E tanto mi è bastato».

«Servono alla mensa della Caritas nella Casa San Simone», hanno aggiunto.

«Avrò preso da mio fratello Mario, il secondogenito, notaio come il papà. Cominciò ad assistere i primi extracomunitari negli anni Settanta. Nella parrocchia del Gradaro lo scambiavano per il vice del prevosto».

Ci va o no alla mensa della Caritas?

«Quando posso. Non è facile conciliare il volontariato con gli orari della libreria. La cucina apre alle 17.30. Preparo i risotti con le ricette ritagliate tanti anni fa dal Corriere d’Informazione. A parte quello alla pilota, tipico di Mantova, mi viene bene il risotto salsiccia, funghi, zafferano. Alle 19.15 serviamo in tavola».

Ma la fede va d’accordo con i libri?

«Molto».

Molto non parrebbe, a leggere quelli di Philip Roth.

«Ma no, non è vero».

Allora come si spiega che l’«Index librorum prohibitorum» sia stato abolito da Paolo VI soltanto nel 1966?

(Ride). «Problema irrisolto. Io per fortuna l’Indice non l’ho conosciuto».

Tra gli otto fondatori del Festivaletteratura ci sarà pure un ateo.

«Può essere, sì. Mi ci faccia pensare... Uno solo. Ma è una mia interpretazione».

Perché ha sempre rifiutato la candidatura a sindaco di Mantova?

«Amo troppo il mio lavoro. E poi il Festivaletteratura è un impegno politico, non solo culturale, ludico o mercantile».

Il primo libro nella sua memoria?

«Michele Strogoff di Jules Verne. Avrò avuto 9 anni. Non riuscivo a staccarmene».

Papà o mamma le leggevano qualche storia la sera per addormentarla?

«No, che io ricordi. Ma avevo dei fratelli più grandi sempre con i libri fra le mani».

Torino, Mantova, Pordenone, Roma: non sono troppi i festival letterari?

«Sono tanti, non troppi. Si arriverà a una selezione naturale».

In che cosa differisce il vostro festival dal Salone del libro di Torino?

«Torino era una fiera commerciale. Adesso cerca di trasformarsi in festival, ma non ha le dimensioni e la location giuste per farlo. Già Mantova, con i suoi 48.000 abitanti è al limite, come villaggio».

Perché in Europa siamo il popolo che legge meno libri?

«Siamo meno degli altri in molte cose, dal minor numero di laureati al minor numero di figli. È tutto un sistema educativo che non funziona. Inoltre siamo freschi di alfabetizzazione».

I giovani non sono analfabeti. Però si limitano a guardare smartphone, pc, tv.

«Leggono molto i bambini. Quando vengono in libreria, hanno le idee assai chiare, riescono a mettere in difficoltà i loro genitori. Cipì di Mario Lodi risale al 1972 e ha superato le 30 edizioni».

Le recensioni dei libri servono?

«Dipende da come sono fatte. Non servono i riassunti, anche perché danno l’impressione che il critico non abbia idea del valore letterario dell’opera o, peggio, che gli manchi il coraggio di esprimere pareri anche velatamente negativi».

Indro Montanelli affidava a Mario Cervi qualche nuovo libro, dicendogli: «È così brutto che se ne può parlare bene».

«Stupendo! Il problema è che si leggono anche sempre meno i giornali».

Quali premi letterari apprezza?

«Da libraio, lo Strega: fa vendere. Tra l’altro sono uno dei 400 giurati. Da lettore, il German Book prize e il Goncourt».

Non ha il dubbio che dietro le quinte si muovano mostri sacri che brigano per farli assegnare agli amici o alle amanti?

«Non ho il dubbio. Sono certo».

Il libro della sua vita, quello che ha riletto più volte?

«Giobbe di Joseph Roth. Ma sogno che i Promessi sposi siano affrancati dal loro infelice destino di testo scolastico. Rileggere Alessandro Manzoni da adulti fa cogliere tutta la sua grandezza».

Quanti libri riceve a settimana?

«Dalle 250 alle 300 novità. Il 20 per cento non venderà neppure una copia. Il 30 per cento una sola».

Amazon è il suo nemico numero uno?

«Sicuramente. Non versa le tasse che pago io e tratta male i dipendenti. È di una slealtà commerciale imbattibile».

Da cosa nasce il successo di un libro?

«Dal passaparola. Io stesso devo leggerne molti per poi consigliarli ai clienti, e guai se sbaglio un giudizio. A Mantova abbiamo anche la più alta concentrazione di gruppi di lettura. Sono formati da non più di 25 persone. Scelgono tutte lo stesso libro e si riuniscono una volta al mese per discuterne. Li ha promossi Simonetta Bitasi, che lavorava nella mia libreria».

L’ex presidente dei librai italiani, Alberto Galla, mi ha raccontato che a Vicenza gli arrivano clienti a cercare «Il fu Matia Bazar» di Pirandello, «La massoneria delle allodole» e «La Pastorella americana», che sarebbe la «Pastorale americana» di Philip Roth.

«Succede anche da me. Il fu Matia Bazar è ormai un classico. ComeBraccobaldodi Italo Calvino e il De brutto gallico».

Il libro elettronico ucciderà prima o poi quello di carta?

«Semmai il contrario».

Ci sono molti scrocconi che vengono a leggere i libri a rate nel suo negozio?

«Ce n’erano di più in passato. Devo mettere qualche salottino, soprattutto per gli studenti che aspettano l’autocorriera».

Non è noioso starsene tutto il giorno in questo cimitero di pagine morte?

«È il più bel mestiere del mondo».

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