28 luglio 2018 - 10:11

La verità su Padre Paolo Dall’Oglio, scomparso cinque anni fa in Siria
Chi erano i suoi nemici?

L’integerrimo gesuita rapito il 29 luglio 2013, oggi vittima di una manipolazione della memoria

di Lorenzo Cremonesi

Padre Paolo Dall’Oglio, nato nel 1954, scomparso in Siria il 29 luglio 2013 (Ansa) Padre Paolo Dall’Oglio, nato nel 1954, scomparso in Siria il 29 luglio 2013 (Ansa)
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Sono trascorsi cinque anni dalla scomparsa di Paolo Dall’Oglio nella Raqqa del fine luglio 2013 controllata da Isis e lacerata dalla violenza della guerra civile siriana. Solo cinque anni, ma già la figura del gesuita scomodo per antonomasia viene stravolta e manipolata soprattutto, ma non solo, dai fautori della restaurazione imposta con il pugno di ferro dalla dittatura di Bashar Assad sostenuta da Iran, Russia e l’Hezbollah sciita libanese.

Padre, «Abuna», Paolo diventa in questa lettura semplificata, censurata e stravolta una delle tante vittime dei gruppi estremisti islamici, una sorta di sognatore naïf che nella vana e illusoria utopia di cercare un dialogo di pacificazione nazionale veniva barbaramente assassinato (ormai sono pochissimi a mettere in dubbio che sia morto) da quelle stesse forze del male che adesso i militari di Assad con i loro alleati hanno finalmente debellato. Ma per chiunque abbia avuto modo di incontrare e conoscere Paolo dall’Oglio è evidente che la realtà è molto diversa, se non addirittura opposta. Detto in modo brutale: sia il regime che larga parte della Chiesa locale siriana erano nemici acerrimi del gesuita italiano. Un’ostilità che era diventata totale negli ultimi mesi prima del suo viaggio fatale nel covo di Isis, ma che in forma meno acuta perdurava da anni. E ciò per il fatto che Paolo era un personaggio scomodo, ingombrante, troppo puro e desideroso di coerente verità per poter convivere con l’antica e organica alleanza tra la dittatura — i suoi apparati di sicurezza, la sua repressione organizzata — e la nomenklatura delle Chiese cristiane locali.

Nella primavera del 2012 incontrammo per due lunghi giorni Paolo Dall’Oglio nel suo eremo di Mar Musa in pieno deserto a oltre 100 chilometri da Damasco. Nelle chiacchierate serali ricordò la sua militanza giovanile nei circoli torinesi di Lotta Continua negli anni Settanta, la scelta di legarsi ai gesuiti, la prima fase del suo lavoro in Libano, il suo amore per l’Islam, la sua profonda conoscenza della lingua e cultura arabe, la sua difesa contro chi lo accusava di essere troppo sincretista nel promuovere il valore necessario del dialogo islamico-cristiano. E lui sulla questione siriana fu subito molto chiaro: i moti insurrezionali contro il regime erano legittimi, giusti e andavano sostenuti. Occorreva a quel fine smussare gli aspetti estremisti dei gruppi jihadisti che stavano crescendo tra le pieghe della rivolta popolare e degli scontri di piazza. Era ben consapevole dei timori crescenti tra la popolazione cristiana locale. E proprio per quel motivo occorreva il dialogo. In sintesi: si dovevano creare le basi di una nuova Siria tollerante e democratica destinata a sostituire gli orrori del regime. Temeva gli agenti e i sicari di Assad, tra loro anche cristiani. Parlava con disprezzo della famigerata «Shabiha», composta da squadracce di militanti che spesso si travestivano da jihadisti per eliminare brutalmente gli elementi moderati della rivoluzione.

Ma c’era di più. Padre Paolo da tempo era in scontro aperto con i vescovi siriani. La sua posizione era sostenuta da alcuni elementi del Vaticano. Se fosse stato per le gerarchie ecclesiastiche di Damasco, sarebbe stato espulso all’estero già da tempo. Lui non stava in silenzio. In Vaticano denunciava di continuo le corruzione e la dubbia moralità di alcuni alti prelati siriani. Per esempio, aveva denunciato la pedofilia di monsignor Isidore Battikha, nato ad Aleppo nel 1952 dove era stato ordinato sacerdote dell’ordine Basiliano Aleppino dei Melkiti e quindi arcivescovo emerito di Homs. Un’accusa che era stata recepita dalla Sacra Rota, tanto da spingere l’alto tribunale vaticano con l’assenso di Papa Benedetto XVI a trasferire in tutta fretta e segretezza il prelato in Venezuela.

Nel 2012 la rabbia covava nelle Chiese siriane. «Paolo è una spia del Mossad, un agente della Cia, un nemico della Siria e dei siriani», denunciavano apertamente, anche con l’inviato del Corriere della Sera. A Qamishli, nella regione semi-autonoma curda sui confini con la Turchia, al patriarcato armeno ci hanno persino fatto capire due anni fa che dopo il rapimento di Paolo i capi di Isis a Raqqa avrebbero offerto uno scambio di ostaggi con il regime. Ma non ci sarebbe stato alcun seguito, gli apparati del regime avrebbero subito rifiutato la proposta. In verità Damasco sarebbe stata ben contenta della sua eliminazione. Con un valore aggiunto: il nemico Paolo da morto avrebbe potuto paradossalmente servire per rilegittimare la causa di Assad agli occhi del mondo cristiano occidentale. Oltre il danno la beffa: l’integerrimo gesuita, vittima della manipolazione della sua memoria, diventa l’involontario complice della dittatura adesso tornata più vitale e aggressiva che mai.

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