6 ottobre 2018 - 17:20

Per Livatino 45 testimoni (tra cui uno dei killer): «Quel giudice diventi santo»

Chiusa la fase diocesana del processo di beatificazione del magistrato ucciso dalla mafia nel 1990. Il postulatore: «Capace di gesti straordinari». Ora gli atti in Vaticano

di Riccardo Bruno

Rosario Livatino Rosario Livatino
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Nelle oltre quattromila pagine di documenti e testimonianze raccolte per sostenere che Rosario Livatino non fu solo un eroe civile, il magistrato ucciso dalla mafia a soli 38 anni, ma anche un vero santo, c’è anche una collezione di episodi di apparente normalità, eppure che stupivano chi gli stava accanto e lo rendevano speciale. «Come quando al termine delle udienze andava a stringere la mano all’imputato, per rispetto, cosa che i suoi colleghi si rifiutavano di fare. Oppure l’abitudine di dare a un collaboratore familiare delle buste con i soldi da consegnare a persone che ne avevano bisogno, restando nell’anonimato» ricorda con passione don Giuseppe Livatino, una lontanissima parentela, postulatore nel processo di beatificazione che si è chiuso nella sua prima fase diocesana mercoledì 3 ottobre. Non una data a caso. Se la mattina del 21 settembre 1990 non fosse stato inseguito e colpito a morte da un commando della Stidda, la mafia agrigentina in cerca di spazio anche contro Cosa Nostra, Livatino avrebbe compiuto adesso 66 anni.

Il motto in latino

Dopo 28 anni dall’agguato, c’è ancora un processo nella storia del «giudice ragazzino». Questa volta di canonizzazione, avviato formalmente sette anni fa dall’arcivescovo di Agrigento Francesco Montenegro che oggi conclude l’istruttoria e mette i sigilli in ceralacca ai faldoni osservando «che la presenza di Livatino è proprio un sole che splende in questa terra dove siamo abituati a sottolineare il buio». Don Giuseppe Livatino aggiunge: «Non è stato semplice scoprire chi era realmente Rosario, la profondità delle sue scelte. Era molto riservato, alcune cose non le sapevano neanche i genitori». Sono state vagliate 45 testimonianze — amici, colleghi, avvocati, ex compagni di scuola —, sono state rilette le sue agende, i suoi appunti. «Cè una sigla che ricorre spesso: STD, Sub Tutela Dei — ricorda don Lillo Maria Argento, presidente del Tribunale ecclesiastico di Agrigento —. Tutta la mistica di questo servo di Dio era racchiusa in quelle tre parole in latino».

Le inchieste

Quello che è diventato per tutti il «giudice ragazzino» in realtà non lo era per niente. Colto, riservato, per dieci anni aveva indagato in Procura prima di diventare giudice l’anno prima di morire. Inchieste su mafia e corruzione, il lavoro vissuto come una missione. «A volte stupiva gli avvocati chiedendo una pena ancora più lieve di quella che auspicavano loro — continua don Giuseppe —. Non gli interessava condannare ma rendere realmente giustizia, giudicare in base ai fatti guardando l’imputato con gli occhi di Dio». Mercoledì, durante la sessione pubblica di chiusura dell’iter diocesano, è stato letto anche un testo scritto da Livatino nel 1986: «Compito del magistrato non deve essere solo quello di rendere concreto il comando astratto della legge, ma anche di dare alla legge un’anima, tenendo sempre presente che la legge è un mezzo e non un fine».

Il presunto miracolo

Tra le 45 testimonianze anche quella di Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer che allora aveva vent’anni e che ne ha passati 28 in cella. «Ha intrapreso un cammino di conversione — conferma don Lillo Maria Argento —. Ha mostrato disponibilità a rispondere alle nostre domande. Il suo è un racconto importante, significativo». Adesso gli atti verranno spediti a Roma, la Congregazione per le cause dei santi dovrà decidere se andare avanti, e a quel punto verrà esaminato anche il presunto «miracolo«. È quello di una donna del Pavese, Elena Valdetera Canale, che soffriva di leucemia e che afferma di essere guarita dopo averlo sognato e poi riconosciuto che era Livatino leggendo la sua storia su un settimanale. Se la Chiesa riterrà che davvero fu una guarigione inspiegabile, il «martire della giustizia e indirettamente della fede», come lo definì Giovanni Paolo II, non sarà più «il ragazzino» ma il giudice Beato.

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