8 ottobre 2018 - 14:15

Migranti, ecco come e perché i comuni montani riescono a integrarli (davvero)

Dimensioni ridotte, capacità di fare rete, sindaci proattivi, progetti misti, attività di cura del territorio: questi alcuni degli ingredienti che, secondo il presidente Uncem Marco Bussone, compongono la ricetta dell’accoglienza nelle aree montane

di Andrea Federica de Cesco

Il Coro Moro Il Coro Moro
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«Attenzione a smontare le opportunità di accoglienza diffusa: spesso nelle realtà montane sono risultate valide». A parlare è Marco Bussone, presidente dell’Uncem (Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani), organizzazione che raggruppa e rappresenta i circa 3.800 Comuni sopra i 600 metri sparsi tra Alpi e Appennini, molti dei quali hanno saputo gestire in modo virtuoso l’integrazione di stranieri e richiedenti asilo nel proprio territorio. Lo scorso 25 settembre, un giorno dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del cosiddetto «decreto sicurezza» (che presenta aspetti molto duri sull’immigrazione), l’Uncem ha infatti diramato un comunicato in cui sottolinea l’impegno decisivo dei piccoli Comuni e degli enti montani per quanto riguarda l’integrazione, alla faccia della retorica. «Non vogliamo prestarci a strumentalizzazioni: ci piace l’idea di raccontare una serie di cose che funzionano, pur consapevoli che in molti contesti ci sono difficoltà», prosegue Bussone. «Fare circolare buone pratiche aiuta; nella fase dell’emergenza siamo riusciti a dare una mano a molti sindaci che si vedevano imporre gruppi di migranti dai prefetti senza alcun preavviso».

Senza stranieri, niente Parmigiano

Già tre anni fa, nell’ottobre 2015, la Fondazione Montagne Italia (nata per volontà dell’Uncem e della Federazione Nazionale dei Consorzi di Bacino Imbrifero Montano) ha presentato alla Camera dei Deputati una serie di dati che mostrano come la montagna sia in grado di accogliere più (e meglio) delle aree urbane. «Dalla nostra analisi della presenza degli stranieri nelle aree montane sono emerse tre considerazioni fondamentali», spiega il presidente Uncem. «Innanzitutto, non c’è alcuna invasione. Secondo, in molte realtà montane gli stranieri salvano la continuità delle filiere produttive, specialmente nel settore agricolo primario (senza gli stranieri probabilmente resteremmo senza Parmigiano Reggiano: gli immigrati indiani di religione Sikh rappresentano il 60 per cento dei lavoratori impiegati negli allevamenti di vacche da latte in Emilia Romagna). Terzo, i modelli di integrazione diffusa e della gestione della presenza di stranieri e di richiedenti asilo negli enti montani e nei piccoli comuni hanno caratteristiche diverse da quelli delle aree urbane e un impatto sociale più moderato».

Le caratteristiche dell’accoglienza nei comuni montani

Ma quali sono gli aspetti che rendono positive molte delle soluzioni per l’accoglienza adottate nei Comuni montani? La capacità di fare rete, per esempio: «Spesso più Comuni si impegnano nello stesso progetto», afferma Bussone. Inoltre molti progetti comprendono sia migranti sia italiani: «Alcuni sindaci hanno avviato processi di integrazione che includono anche italiani non abbienti in senso lato. Allo slogan “prima gli italiani” hanno affiancato le esigenze e le disponibilità di stranieri e richiedenti asilo». Altri elementi cruciali sono proprio il ruolo del sindaco, persona conosciuta e riconosciuta, e il protagonismo dell’amministrazione comunale, in grado di evidenziare quello che serve e di coinvolgere associazioni locali e parrocchie. Queste persone, peraltro, spesso imparano a lavorare sul territorio, svolgendo attività che fanno bene all’intera comunità. E certamente la dimensione di comunità stessa, all’interno della quale nessuno è solo un numero, gioca un ruolo fondamentale.

Alcuni esempi virtuosi

Ed ecco allora il caso di Ormea, nel Cuneese. Quando un albergatore si offrì di accogliere la trentina di richiedenti asilo in arrivo la popolazione si oppose duramente. Intervenne il sindaco, che ottenne di utilizzare l’ex casa di riposo pubblica. L’integrazione ha funzionato soprattutto grazie al fatto che il primo cittadino ha impiegato i migranti in attività di volontariato insieme a persone italiane. Ostana, nella stessa zona, ospita invece una famiglia di pakistani impegnati in lavoretti come la pulizia del bosco e la realizzazione di muretti a secco. Nelle Valli di Lanzo è nato un coro di richiedenti asilo provenienti dall’Africa occidentale: si chiama Coro Moro (lo vedete nella foto in alto) e canta solo canzoni in piemontese o in franco provenzale. Numerosissimi i progetti sportivi (soprattutto nell’ambito del calcio) e le attività di volontariato. E per quanto riguarda il lavoro vero e proprio, è straniera la maggior parte dei lavoratori che si occupano di pastorizia, dalla transumanza alla cura dei pascoli; d’altra parte, molti provengono da Paesi dove l’agricoltura ha un ruolo determinante. «Stiamo assistendo a un aumento di situazioni simili, caratterizzate da un forte di livello di integrazione, sia all’interno del sistema Sprar sia al di fuori di esso», commenta Bussone.

Lo spopolamento delle aree montane

D’altra parte, il presidente Uncem assicura che l’obiettivo non è - come qualcuno suggerisce - quello di ripopolare la montagna con gli stranieri, «anche se l’elemento demografico esiste, dal momento che molti in assenza di servizi e di opportunità lavorative fuggono verso le aree urbane». «Lo spopolamento va governato, provando a capire quali sono le esigenze dei Comuni e quali le imprese che possono funzionare in modo da far rivivere il territorio», prosegue Bussone. D’altra parte, se le aree montane sono così proattive per quanto riguarda l’accoglienza un motivo, forse, c’è. «In queste zone abbiamo avuto fenomeni di emigrazione e di immigrazione massiccia. Il mio bisnonno, per esempio, partì dalle valli torinesi per la Francia. Magari i Comuni montani riescono a capire il fenomeno dell’emigrazione da Paesi poveri e a montare progetti di integrazione e accoglienza proprio perché memori del proprio passato. Quando la montagna si apre e si relaziona, cresce. Quando si arrocca e si chiude, perde».

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