8 maggio 2019 - 22:22

Il delitto di Pamela Mastropietro, la mamma davanti a Oseghale: «Alla sbarra dovevano essere in tanti»

Lo strazio della donna in aula di fronte all’accusato: sui particolari dell’orrore si decide l’ergastolo. Dopo un anno gli spacciatori spariti dalle strade di Macerata

di Goffredo Buccini

Innocent Oseghale (Photo Masi)
Innocent Oseghale (Photo Masi)
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Sulle giostre dei Giardini Diaz sono tornati i bambini. Si sentono già da lontano le risatine di cristallo, nel sole che infine scalda un po’. Fino a un anno fa, questo era «l’ufficio» degli spacciatori nigeriani a Macerata: gente come Innocent Oseghale, il macellaio che ha fatto a pezzi Pamela Mastropietro e che adesso è sotto processo a un paio di chilometri da qui, nel palazzaccio di cemento armato dove il procuratore Giovanni Giorgio ha appena chiesto per lui l’ergastolo ai giudici della Corte d’assise. Qui si comprava fumo ed eroina a tutte le ore, Pamela in fuga dai suoi incubi ci venne alle dieci di mattina del 30 gennaio 2018, all’ultimo giro di orologio della sua vita: qui trovò Oseghale pronto ad abusare delle sue fragilità. Qui lo Stato ha dimostrato che, se vuole, può. Dopo la morte della diciottenne romana e il raid di rappresaglia del razzista Luca Traini contro sei neri presi a casaccio, dopo l’orrore e la vergogna, l’allora ministro Minniti mandò un questore con fama di duro, Antonio Pignataro.

La droga padrona

«C’era stata una mutazione, la droga era padrona in città», dice adesso questo calabrese cresciuto a Palermo accanto a Ninni Cassarà, che in un anno ha fatto (assieme a carabinieri e finanzieri) 450 arresti, 3600 denunce, 20 chili di sequestri tra eroina e cocaina, 500 di hascisc e marijuana, ha fatto sparire i trafficanti nigeriani e s’è messo chiudere persino i negozietti di cannabis light. «La gente deve vedere la faccia dello Stato in giro», aggiunge. I suoi poliziotti hanno inseguito per mesi i pusher giù nei giardini e nel vicino parco di Fontescodella. Lui era spesso con loro. Lo Stato ha vinto, lì, e ha vinto così.

Un’altra partita

Ma adesso si gioca un’altra partita, più insidiosa. Perché in Corte d’assise Macerata fa i conti con i suoi fantasmi e con una pagina girata nella storia. «Prima immigrazione e sicurezza erano rimaste sullo stesso piano delle tematiche economiche», ha spiegato la sondaggista Alessandra Ghisleri: «Dopo la vicenda Pamela-Oseghale l’immigrazione ha fatto da spartiacque». Ora Oseghale è qui, in gabbia, giubbotto vinaccia e sneakers, aria assorta, ascoltando la traduzione della requisitoria del procuratore Giorgio. «Ci vedremo in paradiso», sussurra all’interprete, e chissà a quale demonio si va votando.

Gli occhi di una madre

La mamma di Pamela, Alessandra, vorrebbe sbranarlo con gli occhi, s’avvicina così tanto alla gabbia degli imputati che un agente le si deve parare davanti, «si fermi, signora». «Questo per noi è uno strazio in più, e comunque anche altri dovevano stare alla sbarra con lui», mi dice Marco Valerio Verni, zio della ragazzina uccisa e legale della famiglia. Oseghale mette alla prova il nostro senso comune. Basterebbe ciò che ammette di avere fatto al povero corpo di Pamela di cui voleva disfarsi — la dissezione scientifica e quasi rituale, brandelli d’una giovane vita stipati dentro due trolley e gettati per strada, tutto il sangue e la candeggina sulla scena di via Spalato 124 — per farci esclamare: buttiamo la chiave!

Il processo

Ma uno Stato di diritto non è (per nostra fortuna) senso comune, esige prove oltre ogni ragionevole dubbio anche contro questo «acrobata della menzogna» (come lo chiama il pm Giorgio), sicché per un omicidio aggravato da uno stupro, e per ottenere un ergastolo con 18 mesi di isolamento diurno, si combatte sulle perizie, la pm Stefania Ciccioli insiste a lungo sulle due coltellate al fegato di Pamela, «inferte in vita!», insiste e insiste, comprensibilmente, eppure troppo. Provate a mettervi nelle orecchie d’una madre. Di questa madre, Alessandra, che adesso si fa piccina, più di quanto non sia, nell’udire l’inudibile, il «depezzamento del corpo», «i visceri non congesti», talché Pamela non è morta d’overdose come sostiene l’acrobata della menzogna, ma proprio per quelle due coltellate.

La tempesta

Fuori dall’aula Macerata prova a guarire. Il sindaco Romano Carancini ha attraversato quest’anno come una tempesta e dice che «adesso va meglio», i migranti in accoglienza sono un centinaio (erano 350 a gennaio 2018), soprattutto non si vedono più, non vanno a spasso con quell’aria serena che indispettiva tanti. «Hanno paura», mi confessa Sammy Kunoun, decano dei nigeriani e sindacalista della Cisl qui integrato da 30 anni: «Subiamo umiliazioni, ci chiamano cannibali, non si affittano più case ai miei connazionali». Le colpe di Innocent ricadono su tutti. Gli Sprar sono in ginocchio e anche questo è un passaggio difficile per Macerata: non cedere al razzismo mentre riprova a sorridere per la stagione lirica di quest’estate, per il festival del libro appena terminato, «torneremo ad essere una comunità», giura Carancini.

Quell’ultimo ricatto

Eppure i fantasmi sono ancora nell’aula del processo e attorno. Fuori si può sentire qualche investigatore di lungo corso sussurrare «questi non volevano integrarsi, volevano spacciare e basta»; dentro continua l’ostensione necessaria dell’orrore, i dettagli del sesso a torturare le orecchie di mamma Alessandra; sesso rubato, perché Pamela era stordita dall’effetto dell’eroina avuta attraverso Oseghale, e quel furto il codice lo chiama comunque stupro, ma è uno stupro complesso da provare, un’aggravante da cui dipende l’ergastolo o meno, perciò Giorgio insiste tanto. I nei della ragazzina, la sua pelle, il dna sotto le unghie, altri dettagli duri da ascoltare fino a quelle due coltellate assassine che però ci raccontano anche di un riscatto. Perché infine Pamela s’era ribellata, voleva scappare da via Spalato, tornare a Roma sua, dalla mamma, liberarsi, almeno lei, di incubi e fantasmi. Innocent, il più feroce di quei fantasmi forse perché il più debole, la ferma col coltello. Così dice il procuratore. E per un momento il silenzio ferma l’aula e, diresti, Macerata intera.

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