10 maggio 2019 - 21:25

Franco Rocchetta 50 anni dopo la Liga Veneta: «Quanti soldi ho regalato a Bossi»

L’indipendentista che 50 anni fa creò la Lega: «Io passavo per poeta, il Senatùr per pragmatico, con i miei soldi». Rocchetta abbandonò la politica un quarto di secolo fa, divorziando da quell’Umberto che aveva dirozzato e finanziato

di Stefano Lorenzetto

Franco Rocchetta 50 anni dopo la Liga Veneta: «Quanti soldi ho regalato a Bossi»
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Benché abbia abbandonato la politica da un quarto di secolo, divorziando da quell’Umberto Bossi che aveva con infinita pazienza dirozzato e finanziato, le elezioni europee rinnovano in Franco Rocchetta, padre e madre di tutte le leghe, il dolore provato 40 anni fa, quando per la prima volta tentò invano di far eleggere a Strasburgo un suo candidato sotto le insegne dell’Union Valdôtaine. «Anche gli autonomisti valdostani hanno un leone nel loro simbolo. Pecà che no’ sia el Lion de San Marco. Me racomando, lion non leon, scritto con la elle tagliata. Vabbè che voialtri dei giornali non la usate neppure per Wojtyla». Risale invece a mezzo secolo fa — l’europarlamento sarebbe nato solo dopo un decennio — la prima uscita pubblica di Rocchetta. E che uscita: in mare aperto, da pirata, su un barcone. «Una rivolta contro Porto Marghera, dove progettavano di costruire la terza zona industriale. Era il 16 dicembre 1969, quattro giorni dopo la strage di piazza Fontana. Nella laguna di Venezia abbordai la petroliera Cortemaggiore dell’Agip, 19.000 tonnellate di stazza, scortato dai pescherecci, dai bragozzi, dai burchi di falegnami e muratori, altro che i motoscafi delle contesse, come disse Gianni De Michelis. E subito Indro Montanelli si schierò con noi, autodenunciandosi». L’anno precedente, il 18 agosto 1968, nella basilica di Santa Maria, a Danzica, il ventunenne Rocchetta aveva infiammato studenti, operai, contadini e preti con un discorso, mezzo in latino e mezzo in tedesco, contro i neocolonialismi. «Io fondai la Liga Veneta e loro Solidarnosc».

Che cosa ci faceva in Polonia?
«Giravo l’Europa per studiare le grandi ingiustizie sociali e istituzionali».

Perché nel 1994 uscì dalla Lega?
«Era degenerata. Mi salvai con pochi altri. Quelli che rimasero furono poi coinvolti persino nelle ruberie del Mose. La loro etica era diventata questa».

O ne uscì perché litigava con Bossi?
«Chiariamo subito: hanno sempre fatto passare Rocchetta per poeta e Bossi per pragmatico. La verità è che lui ha sfruttato senza ritegno il nostro lavoro. La Liga Veneta e la Lega Nord le ho create io. Il nome della seconda lo inventò 30 anni fa mia moglie Marilena Marin. Bossi voleva chiamarla Alleanza Nord. Marilena fu eletta presidente e lui segretario. Da lì in poi il consiglio federale fu esautorato. Fino al colpo di mano finale».

Quale?
«L’acquisto della sede di via Bellerio per 14 miliardi di lire. Noi eravamo contrari. Non sapevamo da dove arrivavano i soldi. Poi s’è capito: da Gianpiero Fiorani, quello dello scandalo che ha travolto la Banca Popolare di Lodi».

Quando aveva conosciuto Bossi?
«Nel 1981, a Brescia, all’incontro organizzato dai militanti mantovani per aiutare Enrico Rivolta, editore di Alta Brianza, un giornalino che poi diventerà Vento del Nord. Si presentò con una contessina comasca, sua mecenate. A me vennero i brividi quando costei propugnò come modelli Maria Teresa d’Austria, la Repubblica Cisalpina e il Regno d’Italia di Napoleone, mentre il suo cavalier servente annuiva entusiasta. E infatti, pur potendo realizzare il federalismo, Bossi poi proporrà di spostare i ministeri da Roma al Palazzo Reale di Monza, proprio dove aveva la sua sede lo Stato centralista e oppressore del Bonaparte».

In quel primo incontro vi parlaste?
«Mi mostrò i tabulati con parole di diversi dialetti lombardi, che avrebbe voluto mixare per intestarsi la paternità di una neolingua regionale. E io a spiegargli che gli idiomi non s’inventano a tavolino, nascono dentro le famiglie, dove però i gemelli parlano in modo diverso. Posso dirlo dopo mezzo secolo di ricerche».

Quali lingue ha studiato?
«Inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, polacco, greco, turco, georgiano, macedone, cinese, persiano, sumero, ittita. Ora mi diletto con il burusciaschi, idioma arcaico dell’Himalaya».

Poi che accadde?
«Alle politiche del 1983 la Liga elesse due parlamentari. Bossi si presentò nella Lista per Trieste ed ebbe 6 preferenze. L’anno seguente venne a piatire una candidatura per le Europee, scortato da un amico muto: solo molto tempo dopo scoprii che era suo cognato. Gli dissi: dimostrami che non rappresenti solo te stesso. Così lui fondò la Lega Lombarda. Nel frattempo erano cominciate le manovre per spaccare la Liga Veneta».

Che genere di manovre?
«Della Dc. Nel ristorante della Camera trovai il nostro deputato Achille Tramarin a tavola con Tina Anselmi. Chiesi in tono scherzoso: quale dei due sta corrompendo l’altro? La democristiana, da politica navigata, sorrise. L’altro arrossì. Ero stato suo testimone di nozze e la moglie era parente della Anselmi. Trascorsi tre mesi, Tramarin convocò un congresso fasullo della Liga Veneta. Accorse persino la Rai. L’accerchiamento si perfezionò alle Europee del 1989, quando Bossi, nel frattempo diventato senatore, cambiò all’ultimo momento il simbolo elettorale con Alberto da Giussano, rimpicciolendo il nostro leone sino a farlo scomparire. In pratica fu come se non ci fossimo presentati. Lui ottenne due europarlamentari, noi neanche uno».

Ma lei a Bossi diede anche dei soldi?
«Tanti. Miei personali».

Tanti quanti?
«Cifre consistenti».

Come andranno le prossime Europee?
«Trionferà Matteo Salvini. La gente vede in lui il salvatore della patria. Ma quale patria? A me pare quella di Bossi».

Il governo M5S-Lega durerà?
«Chi può dirlo? Si regge sul ricatto reciproco. Se Salvini molla Luigi Di Maio, perde la copertura per i procedimenti giudiziari che gli pendono sul capo».

Ma l’attuale esecutivo la soddisfa?
«Per niente. È schizofrenico».

Quando ha conosciuto Salvini?
«Nel 2009. Era appena stato eletto parlamentare europeo e indossava una felpa con la scritta Milano. M’è bastato».

Mica poteva esibire la scritta Venezia.
«Ma la Lega non era un partito federale? Al primo congresso del 1991 battei Bossi che voleva fare di Milano la capitale dello Stato del Nord: imposi che fosse scelta Mantova. Ora siamo sudditi dello Stato di Milano. Perché si parla delle Olimpiadi Milano-Cortina? Vivaddio, rispettino almeno l’ordine alfabetico!».

Ha più avuto contatti con Salvini?
«Gli telefonai il 24 maggio 2015, all’alba, dopo aver letto che veniva sulla Piave — al femminile, me racomando — a celebrare i 100 anni della Prima guerra mondiale. Gli dissi che quella era una data di lutto, non di festa. Poche ore dopo era qui a esaltare il nazionalismo».

Come ha fatto il vicepremier a portare la Lega dal 4 al 32 per cento?
«È molto più intelligente e intraprendente di Bossi, il quale mirava solo a costruirsi una fortuna personale. Salvini è ambizioso, vuole passare alla storia».

Ha assunto al Viminale un «consigliere strategico per la comunicazione», Luca Morisi, il suggeritore che lo ha fatto decollare sui social. Che ne pensa?
«Io da adolescente comunicavo sui muri. Poi passai ai manifesti scritti a mano. Ma i golpe cominciano sempre occupando le sedi di ministeri e tv».

Vede in Salvini un futuro Duce?
«Napoleone fin da bambino puntava a diventare il nuovo Alessandro Magno. Non so se Salvini voglia essere il nuovo Mussolini. Non credo. Certo è che sono gli eventi a far sorgere i nuovi Perón».

Scandalizzato dalla foto con il mitra?
«Era molto più irresponsabile Bossi di Salvini. Quando nel 1996 a Venezia proclamò l’indipendenza della Padania, ci furono militanti che arrivarono con i fucili nel bagagliaio dell’auto, pensando davvero di doverli usare. Ed era anche molto più fascista. Nel 1994 piombò in elicottero a Padova per stoppare il congresso della Liga Veneta. Incolpò me e la Marin di essere traditori che cospiravano per fare il partito unico berlusconiano. Un’accusa infamante, essendo lui l’unico compare di Silvio Berlusconi».

Lei fu sottosegretario nel primo governo del Cavaliere.
«Non l’ho mai frequentato. È vero che poi Bossi fece il ribaltone. Ma scelse Buttiglione, Cuccia e D’Alema, seguo l’alfabeto, solo perché ebbe in cambio più di quanto gli garantiva Berlusconi».

Che fine ha fatto Roberto Maroni?
«Dovrebbe chiederlo a Bossi, secondo il quale era il leghista dal quoziente d’intelligenza più alto. Talmente alto che ha mollato la Regione Lombardia pensando di essere il jolly del nuovo governo e invece il furbo Salvini lo ha fregato, alleandosi con Di Maio».

Il jolly? Per quale motivo?
«È l’uomo degli americani. Accompagnai io Maroni e Bossi in un hotel di via del Corso a Roma dove incontrarono Vincenzo Parisi, capo della Polizia, ed Enzo De Chiara, emissario della Cia».

Perché sua moglie ha firmato contro il Congresso mondiale delle famiglie?
«A me piacciono papa Roncalli e papa Luciani. A Verona si agita un certo Maurizio Ruggiero, un tradizionalista fanatico che per questa predilezione mi vorrebbe bruciare sul rogo come eretico».

Nel 2014 passò tre settimane in carcere con altre 24 persone per atti secessionisti a sfondo terroristico. S’è pentito?
«Il processo è ancora in corso. Intervenne in mia difesa persino Massimo Cacciari, dicendo che ho i miei difetti ma di sicuro non sono un bombarolo. Il pm bresciano che m’interrogò pensava di cavarsela in 30 minuti. Gli feci una lezione di storia e diritto durata tre ore e mezza. Gli dissi: lei vive a Brescia, ma non sa in quale tempo e in quale società vive. L’idea d’indipendenza non è punibile».

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