30 agosto 2018 - 22:02

Festival della Mente a Sarzana
Comunità non vuol dire tribù

Il confronto con l’altro (non la chiusura) è la risposta valida alle sfide globali: una sintesi della lectio magistralis con la quale Andrea Riccardi apre la manifestazione il 31 agosto

di ANDREA RICCARDI

 «Psychogeography no. 43», una installazione realizzata nel 2014 dall’artista visuale americano Dustin Yellin (Los Angeles, 1975). Courtesy dell’autore «Psychogeography no. 43», una installazione realizzata nel 2014 dall’artista visuale americano Dustin Yellin (Los Angeles, 1975). Courtesy dell’autore
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Tra la fine del secolo scorso e il nostro è avvenuta una profonda rivoluzione, una silenziosa e prepotente affermazione del mondo globale. Spesso non ce ne siamo accorti come ricadute umane e antropologiche, mentre sono cambiate le proporzioni di tutto, caduti i muri dell’ambiente in cui vivevamo e siamo stati esposti a venti che venivano da lontano, da cui ci sentivamo in precedenza protetti per l’esistenza di un perimetro come orizzonte o comunità o altro. L’affermazione del mondo globale e il nuovo individualismo sono la realtà che Zygmunt Bauman descrive come La solitudine del cittadino globale.

Il testo qui pubblicato è una sintesi dell’intervento sul concetto di comunità con cui lo storico Andrea Riccardi apre il 31 agosto il Festival della Mente di Sarzana. L’incontro si tiene alle 17.45 in piazza Matteotti, la partecipazione è gratuita
Il testo qui pubblicato è una sintesi dell’intervento sul concetto di comunità con cui lo storico Andrea Riccardi apre il 31 agosto il Festival della Mente di Sarzana. L’incontro si tiene alle 17.45 in piazza Matteotti, la partecipazione è gratuita

Il problema è che, mentre le reti si andavano dissolvendo, non siamo stati capaci di prepararci alla rivoluzione antropologica ed economica indotta dalla globalizzazione. Sembrava un’evoluzione buona, su cui non era necessario negoziare. Quasi provvidenziale. E poi, come negoziare quando si è più soli? E la solitudine non è stata avvertita come un limite… I grandi movimenti sociali, anche di protesta, si sono in parte dissolti.

Forse, con l’avvento della globalizzazione, tante reti si sono dissolte perché non hanno saputo affrontarla o perché desuete, rispetto all’imporsi di nuovi orizzonti che, inizialmente, sono stati guardati con ottimismo: il mondo che sarebbe divenuto tutto democrazia e mercato, allontanando le paure della guerra fredda e le frontiere ereditate dalla storia. Era la concezione della «fine della storia» di Francis Fukuyama negli anni Novanta, poi rivista dalla stesso autore. E poi — non lo dimentichiamo per chi non è nativo digitale — la rivoluzione tecnologica ha offerto la capacità di creare nuovi legami, senza coinvolgimento diretto e fisico.

Il logo della manifestazione
Il logo della manifestazione

In realtà la rivoluzione globale è stata subìta, spesso inconsapevolmente: vissuta senza coglierla come un processo connesso, ma accorgendosi di qualche ricaduta qui e là, quando la nostra esistenza ci inciampava contro. L’ottimismo della globalizzazione ha poi lasciato il campo a tante paure che, da un po’ di tempo, accompagnano la donna e l’uomo globale. Oggi l’uomo e la donna hanno paura, spesso molta paura.

Esce il 31 agosto in libreria il volume di Andrea Riccardi, «Il professore e il patriarca. Umanesimo spirituale tra nazionalismi e globalizzazione» (Jaca Book, pagine 206, euro 20). Il titolo del saggio si riferisce all’incontro, avvenuto a Istanbul nel 1968, fra il teologo francese Olivier Clément, una sorta di ambasciatore del cristianesimo ortodosso in Occidente, e il patriarca di Costantinopoli Atenagora
Esce il 31 agosto in libreria il volume di Andrea Riccardi, «Il professore e il patriarca. Umanesimo spirituale tra nazionalismi e globalizzazione» (Jaca Book, pagine 206, euro 20). Il titolo del saggio si riferisce all’incontro, avvenuto a Istanbul nel 1968, fra il teologo francese Olivier Clément, una sorta di ambasciatore del cristianesimo ortodosso in Occidente, e il patriarca di Costantinopoli Atenagora

Mi piace l’espressione dello storico delle religioni di origine romene, Mircea Éliade, quando parla di «paura della storia» (e lo faceva con riferimento ai romeni in secoli lontani, quando l’attacco poteva venire da una parte o dall’altra di un territorio indifeso). L’uomo e la donna globali hanno paura della grande storia del pianeta mondializzato, guidata da mani invisibili, uno tsunami capace di travolgere i nostri piccoli universi, privi di protezione. La risposta securitaria alla fine non tranquillizza la paura profonda di un individuo, che si misura con fenomeni che gli appaiono troppo grandi, come le migrazioni, rappresentate come vere invasioni. Insomma la paura della storia metabolizza tutte le risposte e riapre la questione. La risposta spesso si orienta in senso verticale, come quella dei leader forti: l’io e un vertice che mi garantisca…

Rispondere alle paure dell’uomo globale vuol dire proporre un’identità che spesso si qualifica «contro», mettendo insieme elementi eterogenei. Non è fare o rifare la comunità, ma sentirsi parte di una tribù, tribù smarrita, la cui esistenza viene postulata come fosse da sempre. Così tanti individui, guardando a un leader o temendo/odiando alcune figure minacciose, si sentono tribù/popolo. Magari contro altri. Il mondo degli individui europei s’inquadra — con la politica degli uomini forti o dei populismi — in tribù, che hanno nemici da combattere o da cui difendersi, ma che spesso non significano esperienze esistenziali di legami nuovi e rassicuranti. Le nuove tribù sono realtà di esseri soli.

La tribù rassicura e risponde al vuoto di relazioni. Spesso però si tratta di identificazione verticale che non corrisponde ad una rete umana, associativa, comunitaria. È la politica, divorziata dalla cultura, fatta di insulti, maldicenza, linguaggio rozzo, amici e nemici. Tra ritorno delle tribù e neo-individualismo, viene da chiedersi se l’idea stessa di comunità non sia qualcosa di remoto, di altre età, frutto di nostalgia o utopia.

L’ideale comunitario diventa oggi un sogno antiglobalista? Una nostalgia che richiede quasi di uscire dal mondo? È quella che, negli Stati Uniti, predicano alcuni cristiani tradizionalisti, cattolici ma non solo, la scelta di San Benedetto che fondò una comunità di monaci fuori dalla città di Roma. Rimeditare per me sul tema della comunità non è classificare o inseguire modelli, di cui la storia è piena, dal socialismo utopico degli ultimi due secoli, al Sessantotto o alle esperienze religiose nuove e antiche. Sempre, nella storia, di fronte a quello che sembrava il caos o presi dall’attrazione per un sogno, gli uomini e le donne hanno cercato di realizzare «comunità fortificate». Paradisi perduti, fortezze, inferni?

La comunità non può essere la fuga dal mondo. Lo è stata sempre per un manipolo di sognatori. Lo fu dal III secolo nel mondo cristiano, quando i monaci praticarono la fuga mundi da un cristianesimo che consideravano rilassato nelle città. E poi, nonostante i disagi e le paure, la realtà del mondo globale è difficile, ma non così terribile, così insicura, così anonima come viene percepita. È il nostro mondo, anche per noi che siamo un po’ la generazione dell’esodo, che non siamo nati in questi cieli nuovi e terre nuove.

Esiste però il bisogno di abitare il mondo globale in modo meno anonimo, meno isolato: c’è una dimensione comunitaria da coltivare e far crescere, che non può essere solo un’eredità del passato da conservare, ma qualcosa da reinventare. La dimensione comunitaria è un sogno, un amore, un legame, un tessuto di reciprocità, un modello o invece un modo di vivere con gli altri… È — direbbe il grande intellettuale ebreo Buber — «fare il possibile e desiderare l’impossibile».

Per abitare la globalizzazione, c’è un bisogno diffuso di ricostruire la comunità, come nota Bauman, anche se realizzare una comunità o viverne la tensione richiede una grande capacità di integrazione con l’altro. Solo attraverso la dimensione comunitaria si può cogliere l’esperienza di un’umanità comune senza frontiere o capire meglio che cosa c’entro io con il prossimo lontano. Le esperienze di apertura all’umanità globale hanno bisogno di altre esperienze, piccole o grandi, di realizzazioni o tensioni di un noi comunitario. La prossimità comunitaria rende aperti, non chiude di fronte al mondo globale. Questo è abitare il mondo globale non ammassati in tribù, ma attraverso una dimensione comunitaria, in cui l’io, il soggetto, l’individuo riprenda l’iniziativa, non come un consumatore di vita, ma come un costruttore: si muova in una tensione verso il noi attraverso l’esperienza dell’incontro.

La rassegna

Il tema conduttore del Festival della Mente di Sarzana, diretto da Benedetta Marietti, è il concetto di comunità. La rassegna, giunta quest’anno alla quindicesima edizione, comincia venerdì 31 agosto e termina domenica 2 settembre. È promossa dalla Fondazione Carispezia, presieduta da Matteo Melley, e dal Comune di Sarzana, guidato dalla sindaca Cristina Ponzanelli. Tra gli ospiti di oggi: Roberto Casati, Serena Dandini, Ian Goldin, Manuela Monti, Michela Murgia, Carlo Alberto Redi. Domani intervengono tra gli altri Esther Perel, autrice del libro Così fan tutti(Solferino), Franco Farinelli e Alessandro Barbero.

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