7 luglio 2018 - 21:54

Capire il passato per edificare l’oggi L’architettura integrale di Gregotti

«I racconti del progetto» (Skira) riflettono sulla complessità del processo creativo
Un messaggio di immediatezza ottenuto a forza di aggiustamenti pazienti e meticolosi

di STEFANO BUCCI

Frank O. Gehry (1929), Cleveland Clinic Lou Ruvo Center for Brain Health (Las Vegas, 2009) Frank O. Gehry (1929), Cleveland Clinic Lou Ruvo Center for Brain Health (Las Vegas, 2009)
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«Ho appena consegnato le bozze di Architettura, città e storia che uscirà per Archinto e dei Racconti del progetto che usciranno per Skira». Poi? «Niente più libri, ne ho scritti più di trenta, sono davvero troppi». Nell’intervista al «Corriere della Sera», in occasione dei suoi novant’anni (pubblicata il 7 agosto 2017) Vittorio Gregotti aveva dichiarato, dunque, di non aver più tanta voglia di scrivere libri. Anche se forse parlava «solo» di libri di architettura perché nella testa del professore c’è già, da tempo, l’idea di qualcosa di più personale, un «nuovo» diario intimo alla maniera di Recinto di fabbrica (Bollati Boringhieri, 1996), delicata e intrigante storia della sua gioventù, tra i capannoni della fabbrica di famiglia, a Novara, dove è nato il 10 agosto del 1927.

«I racconti del progetto» Skira (pp. 160, euro 19,50) di Vittorio Gregotti, con uno scritto di Guido Morpurgo
«I racconti del progetto» Skira (pp. 160, euro 19,50) di Vittorio Gregotti, con uno scritto di Guido Morpurgo

I racconti del progetto che arrivano ora in libreria (Skira, pp. 160, e 19,50, con uno scritto di Guido Morpurgo) dimostrano che l’idea di progetto di Vittorio Gregotti continua essere in piena evoluzione e che, con tutta probabilità, ci saranno atri saggi e altre riflessioni su carta (spesso complessi e talvolta «controversi»). Questa raccolta di scritti (molto tecnici, molto da addetti ai lavori) ruota attorno al dubbio «su come si possano raccontare oggi i diversi processi di costituzione di un progetto di architettura». Perché «anche la semplice esistenza di un muro, come quello in difesa delle città o, invece, come quello della Grande Muraglia cinese, del muro tra Est e Ovest Berlino, oggi demolito, o delle mura che dividono palestinesi ed israeliani, o ancora di quelle che gli europei erigono contro gli immigrati, può divenire architettura». Proprio per questo, al racconto semplicemente «architettonico», si deve contrapporre, di volta in volta, quello più politico, più sociale, più economico, più filosofico. Un racconto, comunque, necessariamente complesso e articolato, perché «complessa e articolata è sempre più l’architettura contemporanea».

A vincere, ancora una volta, è l’idea di «progetto integrale», quella da sempre amata da Vittorio Gregotti, celebrata dalla recente mostra del Pac di Milano (chiusa lo scorso febbraio e che presto andrà a Lisbona) che ha guidato il visitatore all’interno del Territorio dell’architettura disegnato da Gregotti: dalle opere degli anni Cinquanta, attraverso i progetti antropogeografici degli anni Settanta (come le università di Firenze e della Calabria) e quelli per le città europee degli anni Ottanta (come Berlino e il centro culturale di Belém a Lisbona), fino ai progetti più recenti in Africa e Pujiang in Cina.

Vittorio Gregotti (foto Afp; Novara, 1927)
Vittorio Gregotti (foto Afp; Novara, 1927)

Ed è la stessa architettura appena analizzata nel volume di Alberto Aschieri Architettura dell’antropogeografia (Maggioli, pp. 1.006, e 75), vero e proprio itinerario fotografico (con tanto di note) nel mondo di Gregotti. Quella davvero «autentica», almeno secondo Vittorio Gregotti, capace di riflettere su se stessa, di partire dal ragionamento sulla storia per edificare il presente. Che sa raccontare i suoi progetti alla maniera, in qualche modo, dell’Italo Calvino delle Lezioni americane: «Il lavoro di scrittore, e qui potremmo dire legittimamente anche quello dell’architetto — così conclude Gregotti il suo libro — deve tener conto dei due tempi diversi: il tempo di Mercurio e il tempo di Vulcano, un messaggio di immediatezza ottenuto a forza di aggiustamenti pazienti e meticolosi e un’intuizione che, dopo essere formulata, assume la definitività di ciò che non poteva essere altrimenti».

Alla fine, quale immagine dell’architettura si può ricavare oggi dal suo racconto, politico, sociale, economico, filosofico o semplicemente tecnico che sia? Quello, è sempre l’opinione di Gregotti, della clinica psichiatrica costruita nel 2009 Frank Gehry a Las Vegas (la «Cleveland Clinic Lou Ruvo Center for Brain Health»): «È il ritratto di ciò che resta dell’architettura, una rovina che mantiene una continuità della sua facciata metallica fatta di superfici sovrapposte». Perché proprio dietro quella «strana» facciata metallica, secondo Gregotti, si nasconde «la confessione di un grande architetto del definitivo crollo di una millenaria pratica artistica o della sua adesione estrema di fronte alla condizione del presente».

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