15 luglio 2018 - 20:20

Né la vendetta né la punizione
Riparazione, l’altra via della giustizia
E su «la Lettura» i nuovi Mandela

Il caso del Sudafrica nel saggio di Claudia Mazzucato, Gian Luca Potestà e Arturo Cattaneo (il Mulino): un Paese che è la patria dell’«altro», epicentro di culture lontane

di CARLO BARONI

Mandela nel 2005 (foto Epa/ Kim Ludbrook) Mandela nel 2005 (foto Epa/ Kim Ludbrook)
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Verità e Riconciliazione sono due parole che non potrebbero camminare insieme. Magari procedere sulla stessa strada, ma a distanza l’una dall’altra. Alla fine della Verità c’è la giustizia (qualche volta) o la vendetta (più spesso). Perché certe cose è meglio non saperle. La Verità è un esercizio di memoria. Si porta dietro le scorie di una vita. Raggiungerla ci farà liberi ma non è detto che ci renda migliori o più buoni. Per ricongiungere Verità e Riconciliazione ci vuole un atto creativo. Il coraggio di capovolgere i ruoli. Vittime e carnefici si devono scambiare gli abiti e vedersi, per la prima volta, nei panni dell’altro.

Il volume «Storie di giustizia riparativa. Il Sudafrica dall’apartheid alla riconciliazione», a cura di Gian Luca Potestà, Claudia Mazzucato e Arturo Cattaneo è pubblicato dal Mulino (pp. 258, euro 22)
Il volume «Storie di giustizia riparativa. Il Sudafrica dall’apartheid alla riconciliazione», a cura di Gian Luca Potestà, Claudia Mazzucato e Arturo Cattaneo è pubblicato dal Mulino (pp. 258, euro 22)

Storie di giustizia riparativa, pubblicato dal Mulino, è un libro che racconta questo cammino. Nel Paese dove era più improbabile che succedesse. O forse proprio per questo: il Sudafrica del post-apartheid. Lacerato e diviso. Un puzzle di odî e rancori quasi impossibile da ricomporre. Ma, come scrive Claudia Mazzucato — una delle curatrici del libro, insieme con Gian Luca Potestà ed Arturo Cattaneo, tutti docenti all’Università Cattolica di Milano — «per chi si occupa di diritto e giustizia luoghi così non possono che esercitare un interesse irresistibile, forse addirittura un fascino».

Il Sudafrica è la patria dell’«altro», l’epicentro di culture e storie che, a prima vista, non hanno niente da dirsi. Figuriamoci condividere una strada. Il «Paese arcobaleno» non è solo lo slogan riuscito per attrarre turisti. Undici lingue ufficiali, decine di etnie diverse. Un cocktail imbevibile per più di tre secoli, l’unica bevanda possibile dal giorno della liberazione di Nelson Mandela.

Il faticoso ritorno di Gandhi: la via sudafricana alla mano tesa, recita il capitolo introduttivo. Il Mahatma che, per uno degli strani percorsi della vita, cominciò la sua carriera di avvocato proprio in Sudafrica, a Durban: città, ancora oggi, popolata da un’ampia comunità di origine indiana. E nel Sudafrica coloniale maturò l’idea che ci potesse, ci dovesse essere una via pacifica alla ribellione. Quel «non volere restituire il colpo» che disinnesca il processo di sangue e vendetta. La Commissione verità e riconciliazione, istituita a metà degli anni Novanta, con alla guida Desmond Tutu, «presuppone l’idea di giustizia riparativa in luogo di quella retributiva». Come dire che al male non si risponde con il male. «Gli sforzi di un oppressore saranno vani se ci rifiutiamo di sottometterci alla sua tirannia», scriveva Lev Tolstoj, un padre nobile della giustizia riparativa, un antesignano che ispirò Gandhi e anche Mandela. Perché «in ogni caso l’idea di giustizia come spartizione, separazione e confine deve fare i conti con la presenza dell’altro». E a questo proposito giusto rifarsi a un libro per certi versi profetico, La conquista dell’America. Il problema dell’altro di Tzvetan Todorov. Anche la scelta di un religioso, il vescovo Desmond Tutu, poteva prestare il fianco a critiche. Termini come colpa, perdono, confessione, tipici del linguaggio religioso fecero irruzione nel dibattito politico. Al punto da paventare un’inevitabile contaminazione tra teologia e politica.

Il Sudafrica aveva teorizzato per decenni la «sparizione» del diverso da noi. Fino a quando le parti si invertirono. E il «fantasma» prese consistenza politica. E decise di restare lì, guardare negli occhi l’oppressore, l’aguzzino. Resistendo all’impulso di «restituire il colpo» o anche di rimuovere il male subìto. Perdonare, forse. O semplicemente lasciar fare tutto all’oblio che, se non cancella, lenisce almeno il dolore. Ma «se non tiri fuori ciò che è dentro di te, ciò che è dentro di te ti ucciderà», scrive in questo saggio Etienne van Heerden.

Van Heerden faceva parte della comunità dei «giusti». L’etnia bianca degli afrikaaner che dominava il Sudafrica. Che l’aveva diviso in due. Aveva teorizzato l’apartheid. E sarà un professore di Diritto costituzionale, Hans van der Riet, ad aprirgli gli occhi sull’orrore, sull’ingiustizia dentro l’università santuario dei boeri, a Stellenbosch.

La generazione nata con l’ubuntu (l’abbraccio) arriverà decenni dopo. L’ubuntu qualcosa di così pregnante da diventare il faro della Costituzione sudafricana. Ubuntu è la chiave che ci apre all’altro per permetterci di esprimere la nostra umanità: io sono ciò che sono per merito di ciò che noi tutti siamo. L’altro è decisivo.

Con il volto sorridente e le camicie a fiori di Nelson Mandela. Lo stesso sorriso di Pumla Gobodo-Madikizela, discriminata per il colore della pelle, le stesse camicie a fiori di Albie Sachs, giudice della Corte costituzionale, ferito quasi a morte in un attentato organizzato dai servizi sudafricani per il suo attivismo a favore dei diritti civili. Sono loro a pronunciare le «parole giuste dalla periferia del mondo» come scrive nella postfazione Gabrio Forti.

Il cammino del Sudafrica, e del mondo intero, è ancora lungo.

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