25 novembre 2018 - 20:27

Stefano Terra: la verità
delle porte di ferro

L’attualità di un libro di Stefano Terra, pubblicato nel 1979 e ambientato nella Parigi
del 1946-47. Anche un romanzo di spie e intrighi può indicarci il senso della storia

di CLAUDIO MAGRIS

Vasile Dobrian (Sibiu, Romania, 1912- Bucarest, 1999), «Portile de Fier» («Porte di ferro», 1979, olio su cartone, particolare) Vasile Dobrian (Sibiu, Romania, 1912- Bucarest, 1999), «Portile de Fier» («Porte di ferro», 1979, olio su cartone, particolare)
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In una sua celebre pagina Borges scrive che, nella sua biblioteca, ci sono libri che non avrà più modo di prendere o riprendere in mano. È uno dei segnali della morte, che gli impedirà e ha già iniziato a impedirgli tante cose. Una biblioteca, custode della vita, è pure un cimitero, talora monumentale. Ogni tanto il dorso dell’uno o dell’altro volume si fa insistente, finché non lo si toglie dallo scaffale e non si comincia a leggerlo o a rileggerlo. Da tempo lo sguardo mi cadeva su Le porte di ferro di Stefano Terra, attirato com’ero soprattutto dal titolo, il nome di quella ciclopica chiusa sul Danubio al confine jugoslavo (ora serbo)–bulgaro da secoli luogo di barriere, passaggi, sconfinamenti, intrighi, spionaggi, scambi di armi e di uomini.

Il libro ha una dedica, del 1979, anno della sua pubblicazione. Ho subito ringraziato l’autore ma, come può accadere con la valanga di libri che si ricevono, ho fatto i conti con esso appena un mese fa, 32 anni dopo la sua morte. La lettura differita di quarant’anni è vorticosa e insieme ordinata come le acque incatenate dalle Porte di ferro e irresistibilmente precipitose nel gorgo balcanico, pronto a ribollire e a traboccare con furore. Ai tempi in cui Terra scriveva il suo romanzo Le porte di ferro erano un teatro più o meno dissimulato di trame fra le piccole potenze locali e le grandi potenze che, giocando cinicamente con esse, si contendevano il dominio del mondo diviso in due dagli infami accordi di Yalta, l’emisfero sovietico staliniano e quello occidentale all’ombra degli Stati Uniti.

Stefano Terra, pseudonimo di Giulio Tavernari (Torino, 1917 - Roma, 1986)
Stefano Terra, pseudonimo di Giulio Tavernari (Torino, 1917 - Roma, 1986)

Torinese, uomo di tanti mestieri, viaggi e avventure, emigrato antifascista, giornalista e scrittore di ventura, nomade nell’esistenza e nell’anima e di robuste radici piemontesi e libertarie, poeta ma soprattutto narratore, Terra è un vero, forte scrittore. A suo tempo ha avuto importanti premi e riconoscimenti e adesso partecipa del comune oblio che spesso caratterizza i primi anni o decenni dopo la morte di un autore e che ora inoltre è frutto di un Alzheimer generalizzato di cui soffrono, senza distinzione di età, la nostra epoca e la nostra cultura. Del resto fama e oblio, primi posti in classifica e sopravvivenza casuale nelle bancarelle di libri usati sono un ritmo perenne della letteratura, cui peraltro non fa male scomparire per poi riemergere, come un agente segreto.

Le porte di ferro sono un romanzo a suo modo anche poliziesco o meglio di spionaggio, genere in cui Scerbanenco è divenuto immortale. Forse nessun libro è una cartina al tornasole di un’epoca come un romanzo di crimini e di spie. Lo dimostra pure l’attuale fortuna della narrativa di questo genere. Ma c’è una grande differenza di valore storico-epocale fra i gialli tradizionali con i loro delitti privati o le loro storie di società malavitose e i romanzi che si tuffano nel cuore e nei grovigli di un’epoca, nelle speranze e nelle perversioni in cui si giocano non la soluzione di un crimine individuale bensì il destino del mondo e la lotta, a sua volta spesso pervertita e degenerata, per dargli un senso, per creare una vita più libera e giusta. Nel romanzo di Terra, come ad esempio in quelli di le Carré, i personaggi, le trame, le ambiguità, gli ideali, i tradimenti degli individui, dei servizi segreti, degli Stati, delle forze politiche si inseriscono in una visione del mondo e dei modi di costruirne una migliore, anche se tale visione è spesso a sua volta manipolata, stravolta, usata dalla logica della potenza o trasformata in aberrante violenza. Ma — autentico o falsato, puro o inquinato, razionale o fanatico — protagonista di tante vite perdute è il senso da dare alla vita stessa, a quella di tutti.

L’azione delle Porte di ferro si svolge soprattutto nella Parigi del 1946-47, all’ombra della Conferenza della Pace che chiude la Seconda guerra mondiale. Sono i mesi in cui De Gasperi tiene il suo famoso discorso nel gelo ostile di quasi tutti i delegati e il giovane Andreotti si stupisce di veder celebrata quale vittima del nazismo l’Austria, mentre egli ricorda l’ingresso trionfale di Hitler a Vienna tra folle plaudenti e cardinali osannanti e il plebiscito pressoché totale della popolazione a favore dell’Anschluss nazista che degradava l’Austria imperiale a mera «marca oriental». Tra i motori della Storia c’è pure l’ipocrisia.

Intorno a quella Conferenza della Pace con la sua ressa di diplomatici, politici, generali, giornalisti e gente d’ogni genere c’è una folla oscura di spie spiate, complotti veri o simulati, militanti politici d’ogni genere, eroi e sicari delle organizzazioni più diverse, giornalisti che vanno a caccia di misteri e di guai senza aspettare le notizie in sala stampa. Uno di questi è lo sfuggente giornalista di facciata — e dunque in parte pure autentico, perché ogni finzione per essere credibile deve diventare pure realtà, un agente travestito da direttore di banca deve dirigere realmente la banca — col quale Gerolamo Traversa, l’io narrante e autentico giornalista, ha un rapporto ambiguo e segnato da autentica simpatia umana, una solidarietà che in lui non può diventare politica ma che si fonda su una affinità e su una potenziale fascinazione politica. Insieme a un’enigmatica donna probabilmente egiziana, Fioravanti — così si chiama il rivoluzionario — è collegato al progetto di dar vita e concreta forza a una Quarta Internazionale comunista, contro la Terza stalinista e contro il mondo capitalista, ed è collegato ai banderovisti, gruppi di lotta armata attivi soprattutto nella zona delle Porte di Ferro ma forse presenti ovunque, che progettano un attentato per vendicare Trockij.

Un caos molecolare, un intrico difficile o impossibile da dipanare, come è spesso nella natura dei movimenti estremisti talora usati da quel mondo che essi vogliono distruggere come Arcangeli del Giudizio, anche a prezzo di uno spargimento di sangue non meno alto di quello cinicamente versato o fatto versare da alcune potenze che pure siedono all’Onu. Ma quel che conta è che, in questa giostra di inganni e di abbagli, si tratta sempre, pure in modo spesso catastrofico, di un interesse per il mondo, per tutta l’umanità. Oggi manca la fiducia nella possibilità di costruire un futuro più degno per tutti gli uomini, manca quella fede che, come dice il Vangelo, smuove le montagne.

La Quarta guerra mondiale che oggi si sta combattendo più o meno ovunque non ha mete universali, nessuno sa nemmeno bene quali siano gli alleati e quali i nemici. Thomas Mann diceva che i tempi del nazismo erano bei tempi per la morale, perché almeno si sapeva quale fosse il nemico da abbattere. Ma presto gli alleati sono divenuti nemici come erano del resto già prima e gli ideali di libertà sono divenuti pure strumenti di retorica. Forse anche per questo l’odierno trionfante romanzo giallo narra spesso delitti e scontri feroci ma meschini come litigi di un condominio, che sanno anch’essi essere feroci. Il vero romanzo giallo dovrebbe avere a che fare anche e soprattutto con le cose e le domande ultime, visto che si muove tra la vita e la morte. L’Edipo re o I demoni sono anche grandi tragiche peripezie poliziesche che cercano la verità del Male e perciò sono pure testi religiosi, perché il senso religioso — ossia selvaggiamente libero da cautele, autoinganni e convenzioni — è quello che più d’ogni altro sa guardare negli occhi il Male. Il romanzo di Terra non è un’inchiesta per scoprire chi ha ucciso l’amante o lo zio che ha diseredato il nipote, ma è la necessità e l’impossibilità della Rivoluzione.

L’autore

Lo scrittore Stefano Terra, pseudonimo di Giulio Tavernari (Torino, 1917 - Roma, 1986), fu legato a Cesare Pavese e a Leone Ginzburg. Prigioniero in guerra fuggì al Cairo, dove si unì a un gruppo di esuli antifascisti e militò nella Resistenza. Nel dopoguerra collaborò al «Politecnico» e fu poi giornalista corrispondente dai Balcani e dal Medio Oriente. Tra i suoi romanzi, Rancore (1942 e 1945), La fortezza del Kalimegdan (1956), Calda come la colomba (1971), Alessandra (1974), L’albergo Minerva (1982) e Un viaggio, una vita (1984). Scrisse anche poesie e libri di viaggio. Il romanzo Le porte di ferro, uscito per Rizzoli nel 1979, non è stato mai ristampato.

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