1 settembre 2018 - 20:38

Morto Luigi Luca Cavalli-Sforza,
lo scienziato signore dei geni

Dal sesso dei batteri al Dna dell’umanità, addio al pioniere fattosi maestro
Studi in Italia, cattedra negli Usa, spedizioni in Africa. E il legame con la famiglia Buzzati

di TELMO PIEVANI

Leonardo Cendamo / Luzphoto Leonardo Cendamo / Luzphoto
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Oggi tantissimi ricercatori in tutto il mondo lavorano all’ombra delle sue intuizioni. Nessuno meglio di Luigi Luca Cavalli-Sforza, il grande genetista spentosi all’età di 96 anni a Villa Buzzati di Belluno, ha incarnato la figura del pioniere, di colui che inaugura campi di studio prima inesplorati. Forse anche perché era alto, elegante e carismatico, ora che non c’è più viene da pensare ai giganti della scienza e a noi nani che guardiamo lontano arrampicandoci sulle loro spalle.

Dopo gli studi di Medicina a Torino e a Pavia negli anni delle leggi razziali e poi della guerra, Cavalli-Sforza dal 1942 fu introdotto allo studio della genetica del moscerino della frutta da un maestro del calibro di Adriano Buzzati Traverso, fratello dello scrittore Dino. Fu Buzzati Traverso a suggerirgli di aggiungere come secondo nome Luca, con cui tutti lo chiamavamo. Il legame di una vita con la famiglia Buzzati sarà sancito dal suo matrimonio con una nipote dei Buzzati, Alba Ramazzotti, che lo seguirà per tutta la sua carriera e gli darà quattro figli.

Fra il 1948 e il 1950 lavorò a Cambridge, sotto la guida di Ronald A. Fisher, insigne statistico e tra i fondatori della genetica delle popolazioni. Con il microbiologo Joshua Lederberg, poi premio Nobel nel 1958 a soli 33 anni, Cavalli-Sforza studiò l’allora sconosciuto sesso dei batteri, cioè lo scambio orizzontale di pacchetti di informazione genetica tra un batterio e l’altro. Dal 1951 ricoprì uno dei primi insegnamenti di Genetica e Microbiologia in Italia, a Parma, dove cominciò ad appassionarsi alla genetica umana. Qui intuì che i nostri geni recano con sé preziose tracce della storia umana profonda e degli antichi spostamenti di popolazioni.

Fiutò questa pista a modo suo, mescolando come nessuno aveva fatto prima dati provenienti da discipline diverse: analisi dei gruppi sanguigni, ricerca di marcatori genetici, registri parrocchiali, storia demografica, alberi genealogici e cognomi. Collaborò con l’Istituto sieroterapico milanese e dal 1962 fu professore di ruolo all’Università di Pavia. Divenne intanto antropologo anche sul campo, guidando spedizioni di ricerca sui cacciatori raccoglitori del deserto africano del Kalahari, e prima sui suoi amati popoli pigmei dell’Africa centrale. L’incontro con la diversità umana reale lo convinse sempre di più che attraverso la lente delle differenze genetiche umane fosse possibile ricostruire l’albero delle separazioni storiche tra i popoli della Terra e la diffusione dei geni tra le popolazioni tramite mescolanze e migrazioni.

Non sempre in armonia con le logiche accademiche italiane, nel 1971 Luigi Luca Cavalli-Sforza lasciò l’Italia per la cattedra di Genetica delle popolazioni e delle migrazioni all’ateneo americano di Stanford, dove assunse la guida di un programma di ricerca mondiale che mirava a ricostruire per via genetica l’albero genealogico dell’umanità. Le analisi sempre più raffinate sulla variabilità umana (sul Dna mitocondriale, sul cromosoma Y e poi sull’intero genoma) lo portarono a scoprire che la specie Homo sapiens ha avuto un’origine unica, africana e recente, confutando il vecchio modello che prevedeva centri multipli di origine graduale in differenti regioni. La sua idea, poi confermata e precisata, fu che una grande diaspora fuori dall’Africa aveva prodotto, circa 60 mila anni fa, il meraviglioso ventaglio delle popolazioni umane attuali e passate, diversificando i loro geni, ma anche le culture e le lingue del mondo. Geni, popoli e lingue (Adelphi) è uno dei suoi libri di maggior successo.

Se questo è il quadro dell’evoluzione umana recente, significa che siamo tutti figli di stratificazioni migratorie successive, dall’Africa all’Eurasia, e poi da questa all’Australia e alle Americhe. Ne discende, e Cavalli-Sforza lo capì subito, che la separazione dell’umanità in «razze» ben distinte non regge, perché la variabilità genetica umana si distribuisce in modo continuo a partire dall’Africa, dove ce n’è di più.

Collaborando con archeologi e linguisti, cominciò a utilizzare le comparazioni genetiche per ricostruire anche migrazioni più recenti, come quella degli agricoltori mediorientali che arrivarono in Europa, e per scoprire la struttura genetica di regioni più limitate (Italia compresa, crogiuolo di diversità).

Nel 1994, insieme a Paolo Menozzi e Alberto Piazza, diede alle stampe un’opera monumentale che ancora oggi è un riferimento: Storia e geografia dei geni umani (Adelphi). Qualche anno prima, con Marcus Feldman a Stanford aveva proposto la prima teoria quantitativa della trasmissione culturale, poi aggiornata nel libro L’evoluzione della cultura (Codice).

Il valore della scienza di Cavalli-Sforza sta tutta in quella domanda, Chi siamo, che fa da titolo a un altro suo fortunato libro, scritto con il figlio Francesco (come anche la sua appassionante autobiografia scientifica: Perché la scienza; due volumi editi da Mondadori). La risposta è che siamo una storia di diversità, ancora in corso. Nel 2011 il Palazzo delle Esposizioni di Roma gli dedicò una mostra importante, Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, inaugurata dal presidente della Repubblica.

Il contributo eccezionale che Luigi Luca Cavalli-Sforza ha dato alla scienza si misura nel mezzo migliaio di pubblicazioni internazionali, nelle alte onorificenze accademiche (tra le quali, accademico dei Lincei e membro straniero della Royal Society), nei premi (Balzan, Nonino, Serono), nelle lauree honoris causa. Come Darwin, non amava gli steccati disciplinari. Da dieci anni era professore emerito a Stanford, ma era tornato in Italia, spendendosi con generosità nella divulgazione e nella lotta ai pregiudizi antiscientifici. Era un uomo schietto, ironico, libero, che avresti voluto interrogare su tutto, e invece era sempre lui a fare le domande a te. Da ogni gesto e parola sprigionava quella gioia che nasce da insaziabile curiosità, sulla natura e sull’umano.

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