3 maggio 2018 - 22:21

Eataly, arrivano i profitti
Entro l’estate un partner
per lo sbarco in Cina

Primo bilancio consolidato in utile. Il presidente esecutivo Guerra: un negozio in ogni capitale, puntiamo a 700 milioni di ricavi

di Raffaella Polato

Il presidente esecutivo di Eataly, Andrea Guerra Il presidente esecutivo di Eataly, Andrea Guerra
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Il primo bilancio consolidato porta con sé, anche, il primo utile netto. È simbolico — un milione da una perdita di 21, e un margine industriale di 254 milioni su 456 di ricavi — ma indica che la macchina aziendale non è più ferma ai soli successi d’immagine: comincia a produrre reddito. E, forse, è arrivato il momento di guardare al «modello Eataly» in un’ottica diversa da quella cui ci siamo abituati. È e rimarrà un brand italiano che, creato dal niente, ha inventato un nuovo business globale «facendo sistema» (e affari) con 2.228 piccoli produttori delle nostre eccellenze alimentari. Ma proprio perciò, da tempo, il metro di valutazione non può più essere l’Italia. Promesse e scommesse del fondatore Oscar Farinetti (conserva il 60%), dei soci di minoranza (Tip di Gianni Tamburi su tutti), del presidente esecutivo Andrea Guerra (anche lui azionista, entro qualche mese, con un potenziale 3%), andranno misurate sulla capacità di rispettare la road map internazionale.

Non è un caso che Guerra, al primo Eataly Press Day, abbia due notizie da annunciare insieme ai conti consolidati. Una è particolarmente suggestiva: ma ci vorranno ancora parecchi anni, investimenti e conferme per arrivare a «un Eataly in ogni capitale nel mondo». L’altra è dietro l’angolo, ed è un tassello fondamentale della strategia di sviluppo: la Cina. Gli aspiranti soci della joint-venture necessaria a sbarcare nel più grande mercato del mondo «sono tanti: sceglieremo entro l’estate, e probabilmente sarà un partner industriale».

Dopodiché, Eataly potrà partire anche nell’ex Celeste Impero. Se riuscisse a replicare il successo americano, sarebbe la svolta chiave. Gli Stati Uniti, da New York a Los Angeles, sono il posto in cui il cibo made in Italy, i nostri prodotti Dop o Doc, la nostra stessa cultura dei piccoli mercati di paese — in altre parole: l’idea base di Farinetti — hanno «sfondato» al punto da consentire tassi di crescita a due cifre abbondanti. Si dice spesso che, fin qui, Eataly non abbia rispettato i traguardi via via fissati. È in parte vero. Come è vero (di nuovo: in parte) che sulle perdite registrate fino al 2016 (l’anno di ingresso di Guerra) ha pesato l’alto ritmo di investimenti. Gli Usa però non hanno mai tradito. E il loro ruolo crescerà ancora: il piano al 2020, quello che dovrà portare i ricavi a 690-720 milioni con un margine operativo lordo attorno al 9%, assegna agli States uno sviluppo medio annuo del 25%. Per dare un’idea: il totale-gruppo è visto al +17% (media 2016-2020), il «resto del mondo» al+20%, l’Italia appena all’8%. Non stupisce. Da un lato ci sono i mercati con molte, a volte ancora tutte le potenzialità da sfruttare. Dall’altro noi, che «siamo» il made in Italy. Perciò si torna lì: è sull’internazionalizzazione che si giocano le scommesse di Farinetti-Guerra-Tamburi. Dal miliardo di fatturato come «ambizione di lungo periodo», alla Borsa l’anno prossimo: «Abbiamo dato appuntamento al 2019. Non stiamo modificando il percorso». Per ora?

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