21 gennaio 2019 - 21:35

Globalizzazione, le élite a Davos si adattano (e ascoltano Bolsonaro)

Il punto di Davos è l’effetto di rete: come succede per Facebook, più persone ci sono, più la rete è fitta e ricca di nodi, più acquista valore

di Federico Fubini

Globalizzazione, le élite a Davos si adattano (e ascoltano Bolsonaro)
shadow

In apparenza è la solita, vecchia Davos. Torna ogni fine gennaio per coltivare l’illusione che il mondo, se non migliorerà nell’anno che viene, per lo meno non è cambiato. Nel programma del World Economic Forum che si è aperto ieri sera con un concerto di gala e una tutt’altro che nuova polemica dell’Italia sulle previsioni del Fondo monetario internazionale, figurano le solite discussioni un po’ vaghe: pochi nomi, e ancora meno cifre ma un «nuovo dialogo sul cibo», un dibattito su come funziona la «fabbrica del futuro» o sull’ultima elettrizzante tecnologia.

L’anno scorso per esempio erano le valute digitali. Qualche investitore di Hong Kong spiegava in una sessione che il Bitcoin rappresentava un nuovo modello per conservare la ricchezza nel ventunesimo secolo, come l’oro ai tempi del Gold Stardard. In quel momento da poche settimane la nuova moneta digitale aveva raggiunto un picco di valore a 3811 dollari per Bitcoin. Ora ne vale 128, giù del 96,6% in poco meno di tredici mesi, ma senz’altro gli stessi partecipanti di allora saranno di ritorno con nuove idee sugli oggetti di culto finanziario del futuro.

In fondo, non è questo l’importante. L’obiettivo del World Economic Forum di Davos non è mai stato offrire una visione anticonformista o anche solo verosimile di dove sia diretto il mondo. Il punto di Davos non è la profondità. Chi ne ha come Nassim Taleb, il teorico del “cigno nero” di una grande crisi improvvisa, dopo qualche anno ha smesso di tornare all’appuntamento in Svizzera perché lo trova dispersivo. Il punto di Davos è l’effetto di rete: come succede per Facebook, più persone ci sono, più la rete è fitta e ricca di nodi, più acquista valore. Davos è un social network delle nevi, un sistema la cui utilità cresce con l’aumentare del numero dei membri. I temi di dibattito sono il pretesto per esserci, ma inestimabile veramente è solo il poter stringere il massimo numero di mani e avviare il massimo numero di affari in un’unica settimana e in un solo luogo. I proprietari di mini-appartamenti nel villaggio svizzero potranno anche vendere un posto letto per una settimana a 18 mila franchi svizzeri. Ma per molti banchieri, lobbisti, uomini d’affari, costerà sempre meno che girare il mondo nel resto dell’anno cercando di incontrare le stesse persone sempre presenti qui a fine gennaio.

Questo è quanto di Davos non cambia mai. Poi c’è il resto. Non solo le cancellazioni improvvise di Donald Trump e di tutta la delegazione americana, fermata dal blocco di bilancio per la lotta con il Congresso sul muro con il Messico. Non solo la prima assenza di un premier di Londra in tempo immemorabile, perché l’agenda di Theresa May è travolta dalla Brexit. Né solo che l’appuntamento maggiore sarà forse l’esordio di Jair Bolsonaro, il neo-presidente ultra-nazionalista del Brasile.

C’è un aspetto in più, nel vento della politica populista che visita anche Davos. Gran parte delle persone che parcheggeranno i loro jet aziendali all’aeroporto di Zurigo nelle prossime ore sono azionisti, amministratori delegati o presidenti di società quotate che hanno visto la propria parte in uno dei falò di ricchezza finanziaria più concentrati nel tempo degli anni recenti. Circa seimila miliardi di dollari di valore azionario bruciato nel mondo nell’ultimo trimestre del 2018. Poi è venuto un incerto recupero dal giorno di Santo Stefano in poi, ma la dimensione, fulmineità e assenza di spiegazioni condivise delle perdite ricordano ai convenuti di Davos la fragilità del mondo intorno a loro. L’innesco di quelle perdite, nell’immediato, è sempre stato un contraccolpo della nuova politica: il rischio Brexit, l’incertezza sul debito dell’Italia, la paralisi del bilancio americano. Il mondo attorno agli uomini e alle donne di Davos si sta sviluppando in direzione opposta ai loro valori di apertura agli scambi, globalizzazione, mercato unico mondiale da Manila a Termini Imerese. La guerra commerciale mossa da Donald Trump alla Cina o quella che il presidente americano minaccia contro l’industria europea dell’auto sono solo gli esempi più evidenti. L’Organizzazione mondiale del commercio mostra che nell’ultimo anno le misure protezioniste nel pianeta sono passate a coprire da meno di cento e seicento miliardi di dollari di scambi.

L’uomo davosiano nei prossimi giorni festeggerà e farà affari come sempre. Ma non può più scrivere la storia con la sicumera che si addice ai vincitori del proprio tempo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT