TECNOLOGIA

Terre rare, guerra fredda con la Cina per i materiali che servono all’hi tech

di Danilo Taino

Terre rare, guerra fredda con la Cina per i materiali che servono all’hi tech

Spesso, mostrare i muscoli non è una buona idea. Al vertice del Partito Comunista Cinese lo aveva ricordato Deng Xiaoping, il leader che nel 1978 aprì l’economia dell’Impero di Mezzo al mondo: tenete un profilo basso, aveva consigliato. Da qualche anno, però, gli alti dirigenti di Pechino si sono infatuati di altre frasi famose del grande uomo. Per esempio questa: «Il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare». Ritenendo evidentemente di potere spadroneggiare in un settore strategico importantissimo per la tecnologia di oggi, hanno inteso utilizzare la posizione di monopolio che avevano fino dieci anni fa nella produzione di terre rare per imporre prezzi, quote di esportazione e termini di scambio. Il risultato è questo: nel 2009-2010, la Cina produceva tra il 95 e il 97% delle rare earths mondiali, nel 2018 meno dell’80%, secondo certe statistiche, il 58% secondo altre.

Terre rare, guerra fredda con la Cina per i materiali che servono all’hi tech

Quando ha mostrato i muscoli, gli altri Paesi si sono spaventati e sono corsi ai ripari. Per un verso, hanno enormemente intensificato l’attività di ricerca. Il Giappone, uno dei maggiori clienti di Pechino nel settore, ha scoperto un giacimento enorme di terre rare — per alcuni con prospettive di estrazione semi-perpetue — nei fondali fangosi attorno all’atollo Minami-Toroshima, a circa 1.850 chilometri a Sud-Est di Tokyo. Un consorzio presieduto dal professor Yasuhiro Kato, al quale partecipano aziende come Toyota, Modec, Shin-Etsu Chemical, sta ora studiando il modo di estrarne i metalli in modo redditizio. Per un altro verso, in altri Paesi si è rimessa in moto l’estrazione, ad esempio nella miniera di Mountain Pass, in California, che in precedenza era stata chiusa per gli alti costi. 

Le terre rare sono 17 elementi chimici della Tavola Periodica di Mendeleev poco conosciuti: dallo Scandio all’Ittrio, dal Neodimio al Cerio e al Terbio. Grazie alle loro proprietà e versatilità sono utilizzati in produzioni hi-tech: in molte tecnologie verdi, ad esempio nelle turbine a vento, nelle batterie per auto elettriche, negli smartphone, nelle tecnologie a microonde, negli schermi tv, nei superconduttori, nei tablet, nei laptop computer. Nell’industria bellica sono insostituibili: sistemi di guida missilistici, laser, satelliti, jet. Hanno insomma una indispensabilità strategica. Non è che trovarli in natura sia così raro come si direbbe dal nome: il problema è che separarli dalle rocce in cui sono contenuti e raffinarli è un processo complesso, che richiede una serie di passaggi chimici e comporta rischi di inquinamento, in alcuni casi radioattivo (molto di frequente il composto prima della separazione contiene Torio). I costi sono in genere elevati.

Fino al 1985, la maggior parte delle terre rare era prodotta in California, nella miniera di Mountain Pass. Gli Stati Uniti erano il maggior produttore al mondo, con Brasile, India, Malesia, Cina distanziati per volumi estratti. Poi, una serie di normative antinquinamento e nuovi regolamenti di estrazione portarono a un calo della produzione, al punto che nel 2002 Mountain Pass chiuse. Nel frattempo, la Cina aumentò enormemente l’estrazione: il Paese possiede circa il 30% delle riserve conosciute (escluse quelle di Minami-Torishima) e già negli anni Novanta realizzava il 90% della produzione globale. È in quel periodo che esplode la domanda internazionale, sostenuta dalle innovazioni tecnologiche. Una domanda così portentosa nella Cina stessa che, nel 2004, tre anni dopo essere entrata nella Wto ed averne accettato le regole, Pechino decise di imporre quote e tariffe all’export di terre rare. In più, per motivi ambientali, nel 2006 introdusse anche quote alla produzione. Sul mercato internazionale, i prezzi entrarono in tensione.

La grande crisi del 2008 e la recessione seguente mantennero il problema sotto controllo. Ma non poteva durare molto: l’export dalla Cina, che era ormai il monopolista del settore, scese dalle 65 mila tonnellate del 2004 alle 50 mila del 2009 e poi a 30 mila nel 2010. A quel punto, scoppiò con il Giappone la disputa territoriale sulle Isole Senkaku (Diaoyutai in cinese) e Pechino impose un embargo alle esportazioni di rare earths contro Tokyo. Il prezzo sul mercato mondiale salì fino al 1.500% per alcuni metalli. È a questo punto che la comunità internazionale si rese conto della delicatezza della situazione, del pericolo che il monopolio cinese costituiva e delle pratiche che Pechino utilizza incrociando le decisioni commerciali con quelle politiche. Europa, Stati Uniti e Giappone ricorsero alla Wto e vinsero il caso contro la Cina, la quale dal 2015 ha terminato la politica delle quote. Nel frattempo, però, tutta una serie di Paesi ha cercato fonti alternative, ha rimesso in attività miniere dismesse, tanto che i prezzi sono caduti (per questo Mountain Pass ha chiuso di nuovo).  I giacimenti di Minami-Torishima non saranno commercialmente utilizzabili ancora per qualche anno.

Avere un’alternativa alle forniture cinesi, rimane un’arma di pressione sottratta a Pechino. Dall’altro lato del Pacifico, Donald Trump si è più volte detto preoccupato della catena di fornitura di elementi indispensabili alla sicurezza e alle strategie militari americane. E Michael Silver, il presidente della società di produzione e distribuzione di materiali avanzati American Elements, ha chiesto alla Casa Bianca di introdurre la questione delle terre rare nelle trattative commerciali in corso tra Washington e Pechino. Anche gli strateghi cinesi certe volte falliscono. Hanno seguito il consiglio sbagliato di Deng e invece della modestia hanno seguito la volontà di potenza. Il mondo non è rimasto a guardare.

ULTIME NOTIZIE DA L’ECONOMIA
>