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La spaccatura della Lega e le fatiche dei governatori «centristi»

La spaccatura della Lega e le fatiche dei governatori «centristi»

Si stanno davvero formando due Leghe o questo schema riflette una lettura semplificata di quanto sta avvenendo nel più vecchio partito d’Italia? Sarà che una volta sapevamo tutto dell’antropologia leghista, dei raduni nel pratone di Pontida e delle feste tipo Unità e oggi invece siamo spossati dai post di Matteo Salvini(l’ultimo lo ritraeva sulla bilancia speranzoso di vederla in calo!) e ce li facciamo bastare? Per tentare di capirne di più bisogna in primo luogo concentrarsi sul Nord dove il Carroccio guida direttamente tre regioni della A4 (Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia) ed è la forza politica più influente in Piemonte. Bisogna lavorare sulle biografie dei governatori e sull’intreccio politica/economia che hanno modellato nelle loro regioni. E infine bisogna dare uno sguardo fuori dal partito e fotografare i rapporti tra il partito e le associazioni imprenditoriali grandi e piccole. La prima riflessione riguarda la concorrenza: se in passato il Pd è sembrato in qualche modo competere con la Lega per il consenso dei ceti produttivi oggi non c’è assolutamente partita. È vero che la sinistra amministra alcune importanti città (da Milano a Padova passando per Bergamo e Brescia), ma di fatto non riesce a uscire dalla cinta daziaria a testimonianza che nelle regioni settentrionali, come del resto in quasi tutti i Paesi occidentale, le differenze culturali tra città e contado sono così ampie da continuare a produrre esiti elettorali opposti.

La geografia

Il sociologo Aldo Bonomi, infatti, prima di pronunciarsi sulle due Leghe preferisce indugiare nella mappatura dei territori. Nella sua Lombardia ne individua addirittura quattro differenti (le Alpi, la pedemontana, le grandi città e la zona padana) e per questo ci parla di blocchi sociali che si scompongono e ricompongono e di una pandemia che «è entrata nelle antropologie profonde». Il messaggio è chiaro, più che classificare giorno dopo giorno le divaricazioni tra Salvini e Giorgetti per capire davvero la Lega è più utile guardare alla società del Nord e alle sue metamorfosi. «Per misurare la temperatura una volta usavamo il termometro della politica, oggi si è rotto e il mercurio si è riversato per terra. Chi tenta di raccattarlo sono i governatori e non certo i sindaci. Poi alcuni lo fanno con successo, altri no». In Piemonte il presidente della Regione Alberto Cirio è un forzista. Al di là del giudizio che si può dare sul suo operato dialoga proficuamente con la Confindustria e non si è trovato davanti mai una Lega protezionista o sovranista. Si dirà che in Piemonte il partito non ha mai avuto un’identità così accentuata ma oggi men che meno. I suoi esponenti locali non disdegnano di fare campagna sull’immigrazione e la sicurezza (temi cari a Salvini) ma a giudizio degli imprenditori alla fin fine si comportano come una forza centrista. Se le istituzioni e le rappresentanze sociali parlano delle scelte di Stellantis, dei problemi dell’automotive e dell’aerospazio o del sogno di attrarre a Mirafiori il maxi-investimento di Intel, la Lega - come l’intendenza - segue.

Nordisti liberali e sovranisti

In Lombardia il quadro è stato pesantemente condizionato dalla pandemia. Il governatore Attilio Fontana non aveva certo il peso e l’esperienza politica del suo predecessore, Roberto Maroni, ma nemmeno all’inizio si era proposto di far diventare la Regione un soggetto chiave per individuare le traiettorie di sviluppo e purtroppo le scelte degli assessori-chiave lo hanno dimostrato. Anche oggi che la reputazione sanitaria della Regione è migliorata, per i risultati conseguiti nella vaccinazione, non si può dire che Fontana stia cercando di raccattare il mercurio. Quando è salita a bordo Letizia Moratti è cambiato anche l’assessore allo Sviluppo, il giorgettiano Guido Guidesi, ma il governatore non sembra godere di molti margini di autonomia e la sua amministrazione appare comunque convalescente. E se è vero che Varese resta il fortino dei leghisti più tradizionali, più vicini alle associazioni imprenditoriali, meno inclini ai selfie e al fascino di Instagram la spaccatura tra le due Leghe non corre a cielo aperto. Spiega il politologo Giovanni Diamanti: «Qualsiasi altro partito con una dialettica come quella che si manifesta nella Lega si sarebbe già logorato. E invece qui riescono a convivere i nordisti liberali con i sovranisti e il partito riesce a fare sintesi con una conflittualità tutto sommato sostenibile. Nel Pd, per fare un esempio, quando si è manifestato qualcosa del genere, e penso a bersaniani versus renziani, il contraccolpo è stato veloce e tremendo». Sarà, osserva Diamanti, che da Umberto Bossi i leghisti sono stati abituati alla cultura del leader e che di conseguenza non sanno nemmeno che cosa voglia dire la parola «corrente».

Le differenze tra lombardi e veneti

Se c’è qualcuno che il mercurio di Bonomi sembra saperlo raccattare è invece il governatore veneto Luca Zaia. La sua popolarità è nettamente superiore al recinto del voto leghista, la simbiosi con l’imprenditore medio nordestino e anche con le più importanti associazioni confindustriali è totale. Lo dimostrano le interviste di Laura Dalla Vecchia (Confindustria Vicenza), Cavion (Confartigianato Vicenza) e Leopoldo Destro (Assindustria Venetocentro) rilasciate al Foglio negli ultimi giorni. Tutto ciò avviene nonostante Salvini gli abbia fatto la guerra e sia arrivato a controllare ferreamente il partito in regione. Ma in questo caso è burocrazia contro società, politburo contro un’amministrazione che si rivolge direttamente all’elettore e lo tiene costantemente «sotto tiro», grazie a una comunicazione giornaliera che non lascia mai in ombra il governatore e le sue gesta. È evidente che le differenze tra lombardi e veneti affondano nella storia, la Liga veneta coltiva il mito della primogenitura e comunque Zaia parla anche all’anima anarchica e antistatalista del cittadino veneto della porta accanto. Vedi lo stop and go sul tema dell’autonomia regionale che ha portato il governatore prima a stravincere il referendum, poi a impantanarsi nel negoziato con Roma e un domani lo porterà a rispolverare la bandiera e farla garrire di nuovo. Fuori dal Veneto Zaia però non potrebbe contare su queste sicurezze e quindi è difficile che possa pensare di sostituire Salvini.

Istituzionali

Il terzo governatore leghista del Nord è Massimiliano Fedriga. Anche lui non sembra adatto a raccattare il mercurio o, come dicono i maliziosi, «non è particolarmente pro-attivo». Osserva un profilo istituzionale orientato alla correttezza ma non è particolarmente versato sui temi dello sviluppo economico. Attento a non commettere errori, non intralcia certo le scelte strategiche per il Porto di Trieste, mixa la lotta all’immigrazione clandestina che arriva dal vicino Est con un messaggio politico che cerca di parlare a commercianti, artigiani e partite Iva. Ne viene fuori una Lega sorniona, più giorgettiana che salviniana, ma non si può dire che sia cosciente, per dirne una, del ruolo che Trieste può svolgere nella sua rinnovata vocazione mitteleuropea. La verità, dunque, è che da Torino a Trieste passando per il Pirellone emerge una Lega a bassa intensità, meno raccontata, che forse non sa nemmeno chi sia Alberto Bagnai, un partito che sembra tutt’altro che a disagio sulle poltrone che occupa. Forse sarà questo il motivo che spinge Salvini a girare come un ossesso per l’Italia e a mitragliarci di selfie h24: vuole oscurare a tutti noi la realtà di una Lega che, persino al Nord, è molto più quieta del suo capo.

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