11 agosto 2018 - 00:16

Terremoto in Indonesia, il racconto di un’italiana che vive lì: «Isolati, ma quanta solidarietà tra la gente»

Elena Calligaro gestisce una struttura turistica alle Gili. Al Corriere racconta: «Dopo il sisma nessun aiuto dalle istituzioni, ma le persone di qui e i giovani mi hanno stupito»

di Elena Calligaro

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Sugi, Rini, Ostman, Sitang, Lina e moltissimi altri. Non sono solo nomi. Sono persone. Sono storie. A cui vorrei dare voce. Il 5 agosto alle ore 19.46 a Gili Trawangan, arcipelago di Nusa Tenggara in Indonesia, la terra ha tradito tutti noi. Il boato ha risucchiato in un vortice di detriti e grida una serata estiva dove migliaia di persone stavano vivendo il loro sogno di una vacanza ai tropici. La terra è diventata una palude. Sabbie mobili. Boati continui. Cade la grande moschea con il suo imponente minareto. Tanto buio e tanta polvere. Sento l’acqua salire fino ai polpacci, la gente urla «Tsunami!», in realtà — avremmo capito poi — si erano rotte le cisterne.

Tutti corrono all’impazzata sulla cima della collina. C’è puzzo di vomito ed escrementi. La gente ha paura. Piange. Prega. Arriva l’alba. Le scosse si susseguono senza tregua. Siamo isolati. Tutti hanno esaurito le batterie dei telefonini usandoli come torce e adesso non capiamo se l’allarme tsunami è rientrato oppure no. Noi decidiamo di scendere dalla collina e cercare di capire cosa fare. Intanto iniziano a contare i morti e i feriti. Alle 9 i primi elicotteri, alle 10 l’allarme evacuazione immediata. Arrivano le grandi navi per recuperarci, corriamo, abbandoniamo tutto e cerchiamo di metterci in salvo raggiungendo qualche scialuppa ma è impossibile. I turisti nel panico le assaltano, una bolgia infernale.

Sugi è un ragazzo di 28 anni che mi affianca nella gestione della nostra attività sull’isola e sua moglie Lina mi sostiene in questa difficile impresa. Rini si occupa del marketing, è al sesto mese di gravidanza mentre Ostman ha già due bimbi di 3 e 5 anni. Loro, come molti altri indonesiani, hanno permesso a molti turisti di evacuare l’isola e hanno fatto l’impossibile per tranquillizzarli. Si sono fatti indietro senza la minima esitazione per dare il loro posto in barca a dei ragazzi australiani terrorizzati, hanno sorriso e rassicurato nel loro inglese incerto, hanno consolato e accompagnato le persone nella loro fuga dall’isola. Ma c’erano anche due ragazzi italiani Ernesto e Emiliano, di 16 e 13 anni, che hanno dimostrato che il coraggio e l’umanità sono doti che appartengono a tutti e che, forse è bene ricordarlo, ci rendono tutti fratelli. Non c’è razza, non c’è frontiera. Non c’è cultura. Ma solo persone che si misurano con la vita. E questo è accaduto a Gili Trawangan.

Per me l’Indonesia non è un luogo di svago ma un luogo di lavoro. Come per moltissimi altri italiani che operano qui, sono legata a questo Paese da un ambiguo senso di attrazione e rifiuto. Attrazione perché i suoi colori, i suoi profumi, la sua morbidezza e la cordialità della gente rende questo vasto Paese irresistibile. Rifiuto perché lavorare in questa parte remota del mondo richiede una grande spinta verso la comprensione di culture diverse. Niente di ciò che sappiamo e conosciamo è applicabile alla realtà di questo arcipelago assolato e accogliente dove migliaia di turisti ogni mese inseguono il sogno di nuotare con le testuggini.

Il 5 agosto tutto si è dissolto. Il boato assordante, i detriti che riducono l’isola a una visione spettrale. Ernesto ed Emiliano sono i miei figli e mi avevano appena lasciato in pizzeria dicendo che andavano a casa, con la mia solita disapprovazione perché non hanno mai la pazienza di aspettare. Non pensavo a cosa sarebbe successo da lì a pochi minuti. Come tutti i genitori del globo lotto quotidianamente contro la sensazione che questi adolescenti soffrano di una pigrizia cognitiva congenita e che non se la sapranno mai cavare da soli nella vita. Ma mi sbagliavo. Non immaginavano davvero che i miei figli potessero affrontare da soli, con tanto coraggio, una tragedia di queste dimensioni.

Quando il buio piu tetro è calato sulle Gili eravamo tutti divisi. Ernesto da solo ha guidato alcuni turisti italiani in salvo portandoli al sicuro sulla collina perché c’era stata un’allerta Tsunami, mentre Emiliano si improvvisava giullare per alcuni bambini sopraffatti dal terrore. Io sono riuscita a ritrovarli solo 4 ore dopo il sisma e mi sono chiesta quanto poco sono in grado di capire questi figli che paiano aver sviluppato solo il pollice opponibile ma che invece hanno grandissime risorse. E lo stesso vale per Sugi, Rini che ci appaiono persone semplici ma che hanno una complessità ed una profondità di animo che ci deve far riflettere su quanto poco siamo in grado di capire cio che è semplicemente diverso.

Due giorni senza cibo, con acqua razionata in attesa di essere evacuati. La paura del buio ma anche la paura della luce che mostrava tutto lo scempio di un paradiso ridotto a un cumulo di rovine. Qui contiamo ancora i morti e a ogni piccolo rumore sobbalziamo. Ma chi sta pagando a caro prezzo tutte le conseguenze di questa natura feroce sono i tanti Sugi, Rini,Lina e Ostman. In questi giorni ho letto sui social tanti vergognosi commenti dei turisti evacuati sugli indonesiani e da questa immensa tragedia di cui dobbiamo ancora vedere la fine ho voluto condividere la mia testimonianza dell’enorme generosità del popolo indonesiano, il grande stupore nel vedere il coraggio delle nostre nuove generazioni nell’affrontare una prova così difficile e lo sbalordimento nel sentirmi completamente abbandonata come cittadino italiano. Isolati per quasi due giorni. Senza acqua né cibo, con una traversata angosciante in attesa dell’onda anomala e delle scosse continue. Non abbiamo avuto nessun tipo di supporto o assistenza da parte dell’ambasciata. Nessuna informazione da parte delle istituzioni.

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