28 agosto 2018 - 00:33

Papa Francesco e la risposta (nei fatti) al dossier di Viganò su lobby gay e molestie

Dopo le accuse, Bergoglio prosegue la linea di «tolleranza zero» voluta da Benedetto XVI, con norme più severe e centinaia di preti spretati dall’ex Sant’Uffizio

di Gian Guido Vecchi

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Lo sguardo, anzitutto. Nel volo di ritorno da Dublino, mentre sulla lettera di Carlo Maria Viganò replicava ai giornalisti «non dirò una parola su questo, leggete voi attentamente e fatevi un vostro giudizio», papa Francesco aveva uno sguardo perfettamente sereno, appena un lampo di ironia. Chi è vicino a Bergoglio conosce bene questa serenità. Ne ha sentite ben di peggio, altro che i dossier curiali. Pure in Argentina se ne erano dette tante. Il sostenitore occulto di Videla, il provinciale della Compagnia di Gesù che ai tempi della dittatura militare non fece nulla e anzi era connivente. Padre «Pepe» di Paola, anni di servizio nelle baraccopoli delle «Villas miserias» di Buenos Aires, non se ne dava pace: «Ma perché non risponde, perché non dice a tutti la verità, così la smettono con queste menzogne?». Saltarono di nuovo tutte fuori al momento dell’elezione, le menzogne, e poi finirono in niente. Un bel libro del giornalista di Avvenire Nello Scavo, «La lista di Bergoglio», ha dimostrato con decine di testimonianze che il giovane provinciale aveva al contrario salvato almeno un centinaio di potenziali desaparecidos braccati dal regime militare, e non aveva mai detto niente. «Francesco non ha mai difeso se stesso dalle accuse. “Sa” che prima o poi la verità viene a galla», commentava ieri su Twitter padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica.

Ma non importa. Per Bergoglio, si fa notare, parlano e parleranno i fatti. A cominciare dall’ormai ex cardinale Theodore McCarrick, 88 anni, cui proprio Francesco ha imposto di rinunciare al cardinalato. Un gesto senza precedenti, quello del Papa. L’unico caso simile risale al 13 settembre 1927 e non riguardava abusi sessuali: il cardinale Louis Billot sosteneva il movimento protofascista e antisemita Action Française, condannato da Pio XI, e uscì dallo studio del Papa senza zucchetto né anello cardinalizio, «rinunciando» alla porpora.

Ma ci sono tante prime volte, in tema di lotta alla pedofilia, nel pontificato di Francesco. Bergoglio prosegue la linea di «tolleranza zero» voluta da Benedetto XVI, con norme più severe e centinaia di preti spretati dall’ex Sant’Uffizio, proprio la scelta di trasparenza che ha finito, paradossalmente, per funestare il pontificato di Ratzinger. Poco dopo l’elezione di Francesco, con la legge numero VIII del 13 luglio 2013, arriva un altro giro di vite e nell’ordinamento vaticano viene introdotto il reato specifico di «pedopornografia». Il Papa ha disposto pure che «il personale di ruolo diplomatico della Santa Sede» ricada sotto la giurisdizione vaticana per essere processato.

Il 23 settembre 2014 viene arrestato in Vaticano l’ex nunzio nella Repubblica Dominicana, il polacco Jozef Wesolowski. È la prima volta che in Vaticano, per pedofilia, viene arrestato un arcivescovo. Wesolowski, ridotto allo stato laicale dall’ex Sant’Uffizio, muore prima del processo. Ma è solo l’inizio. Da ultimo, il 23 giugno di quest’anno, il Tribunale vaticano ha condannato a cinque anni di reclusione per divulgazione, trasmissione, offerta e detenzione di materiale pedopornografico» monsignor Carlo Alberto Capella, non uno qualsiasi: era consigliere di nunziatura a Washington, il numero tre della diplomazia vaticana negli Usa.

Del resto Francesco lo aveva detto: «Su questo problema non ci saranno figli di papà». Con un chirografo firmato il 22 marzo 2014, istituisce la pontificia commissione per la tutela dei minori e vi nomina anche alcune vittime di preti pedofili: la commissione ha il compito di proporre al Papa «le iniziative più opportune per la protezione dei minori e degli adulti vulnerabili, sì da realizzare tutto quanto è possibile per assicurare che crimini come quelli accaduti non abbiano più a ripetersi nella Chiesa». Presieduta dal cardinale Sean O’Malley, nel caso incalza anche le conferenze episcopali troppo timide (come quella italiana) sulle linee guida antipedofilia imposte dalla Santa Sede a tutte le Chiese locali: il 14 febbraio 2016, ad esempio, chiarisce che c’è la «responsabilità morale ed etica di denunciare gli abusi presunti alle autorità civili» perché «come papa Francesco ha così chiaramente affermato, non devono essere tenuti segreti mai più». Tra le raccomandazioni c’è l’«accountability», la responsabilità dei vescovi. Il 4 giugno 2016, con il motu proprio «Come una madre amorevole», Francesco ha disposto che tra le «cause gravi» per la rimozione di un vescovo c’è anche la «negligenza»: va cacciato non solo chi abusa, ma anche chi copre. E le rimozioni cominciano. Certo «bisogna sempre rispettare la presunzione di innocenza». Se gli capita di sbagliare, Francesco lo ammette, chiede scusa e si corregge, come nel caso dei vescovi cileni. Il viaggio in Cile di gennaio è stato scandito dalle polemiche su Juan Barros, un vescovo accusato di aver coperto il prete pedofilo Karadima, uomo potente e protetto fin dagli anni di Pinochet. Da principio il Papa aveva difeso Barros «sono calunnie, non ci sono evidenze», ma poi ha disposto un’indagine affidata in febbraio all’arcivescovo Charles Scicluna: 64 testimoni sentiti a Santiago del Cile, 2.300 pagine, l’evidenza di una rete di coperture. Non gliel’avevano raccontata giusta. Così, il 18 maggio, Francesco ha convocato in Vaticano 34 vescovi del Paese e imposto a tutti di rimettere nelle sue mani il loro mandato — anche questo non era mai accaduto: un’intera conferenza episcopale —, riservandosi di valutare: ne ha già mandati via cinque. Francesco, d’altra parte, sa che repressione e procedure non bastano.

Nella sua «lettera al popolo di Dio» sulle «atrocità» e dei preti pedofili ha scritto che c’è da cambiare una mentalità chiusa, quel «clericalismo» che sta alla radice degli abusi di potere e dell’omertà. Per questo ha scelto di rivolgersi ai fedeli di tutto il mondo. «Quando si vede qualcosa, parlare subito», ripeteva domenica. Il problema sono le resistenze dall’interno. «La rabbia non finisce perché muore il cane», diceva ai cileni. «Il problema è il sistema».

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