28 agosto 2018 - 20:56

La battaglia finale di Orbán (e Salvini) per un’Europa nazionalista e filo-autoritaria

Quella costituita da Italia e Ungheria è una «strana alleanza», strutturalmente fragile sul piano dell’immigrazione. Ma il piano del leader ungherese è quello di formare un’avanguardia per una riforma strutturale del progetto europeo

di Maria Serena Natale

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Appena prima dell’incontro in Prefettura, Viktor Orbán ha definito Matteo Salvini un eroe e un compagno di destino. Al di là dei toni epici e della cortesia diplomatica, il canale privilegiato aperto tra Italia e Ungheria è oggetto di attenzione crescente in Europa, dove sono cominciate le manovre di posizionamento in vista delle elezioni del prossimo anno per il rinnovo dell’Europarlamento. Pur inserendo la visita nel contesto del dialogo tra partiti e non dei rapporti intergovernativi, la prima mossa del leader nazional-populista ungherese a Milano è stata proprio d’inquadramento e legittimazione di questa «strana alleanza» strutturalmente fragile sul piano dell’immigrazione.

La Lega salviniana e Fidesz di Orbán rivendicano infatti una comune linea anti-migranti ma le posizioni dei due Paesi poggiano su presupposti diversi: l’Italia vuole solidarietà comunitaria e condivisione degli oneri, l’Ungheria si oppone da sempre alla ripartizione dei richiedenti asilo secondo lo schema delle quote Ue. Il rafforzamento delle frontiere esterne è la cornice che finora ha permesso di tenere insieme i due approcci, ma adesso Orbán spinge per accreditare il principio di fondo della politica di Budapest, del resto sempre dichiarato: l’immigrazione non va controllata, ma fermata. Per questo indica nell’Italia un Paese gemello, deciso ad arrestare i flussi del Mediterraneo come l’Ungheria ha fatto via terra chiudendo le frontiere e alzando muri di acciaio e filo spinato già nel 2015. «La missione di Salvini – ha dichiarato Orbán – è dimostrare che si può fare anche in mare».

Secondo, cruciale obiettivo di Budapest: sondare in concreto le possibilità d’intesa con l’alleato italiano per formare il nucleo operativo di un più ampio schieramento che è la grande ambizione di Orbán. Un’avanguardia per una riforma strutturale del progetto europeo, che fondi una nuova identità comunitaria capace di esaltare gli Stati nazionali e le forze politiche con vocazione autoritaria. A fine luglio, nel consueto discorso annuale agli ungheresi di Romania, Orbán ha esposto con chiarezza il suo programma, riprendendo l’ormai nota formula della democrazia illiberale e allargandola a una «democrazia cristiana» sola alternativa all’ordine liberale istituito dalle «élite prodotte dal 1968».

Nella visione di Orbán, che si candida a naturale leader del nuovo fronte, il voto del 2019 si configura come la battaglia finale tra due idee di Europa. Per il suo partito, Fidesz, si profila dunque un’uscita dal Partito popolare europeo, a propria volta sempre più a disagio, oltre che per le tensioni sui migranti, per la deriva repressiva del governo magiaro e le relazioni pericolose con la Russia di Vladimir Putin? Sull’espulsione della formazione della destra ungherese dal Ppe ha sempre frenato in primis la Germania. La versione ufficiale negli ambienti di Fidesz è che il salto non sia ancora deciso e che il premier punti a restare nel Ppe, trasformandolo in senso identitario: se però il più grande gruppo dell’Europarlamento si dimostrerà irriformabile, nuove alleanze non sono più da escludere. Non a caso Orbán ha precisato di aver sentito Silvio Berlusconi — Forza Italia è nel Ppe — per avere il via libera all’incontro con Salvini. Che Orbán voglia solo dare l’impressione di poter giocare su più tavoli per tenere a bada i malumori interni ai Popolari europei? Bluff o strategia, la partita è solo cominciata.

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