18 luglio 2018 - 22:34

Palloncini incendiari su Israele, la sfida dei giovani di Gaza

Il governo diviso su come rispondere. Il ministro dell’Educazione: eliminare questi terroristi. Ma il capo di Stato maggiore: non spariamo sui minori

di Davide Frattini, corrispondente da Gerusalemme

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Gli aquiloni, i preservativi gonfiati con l’elio, un falco. L’autoproclamata «aviazione» palestinese si affida al vento e all’istinto di un volatile per colpire dall’altra parte della barriera, per bersagliare con bottiglie incendiarie e bombe artigianali i campi coltivati dagli agricoltori dei kibbutz nei dintorni di Gaza. Il filo che controlla l’aquilone fa da miccia, le molotov in caduta libera sul terreno appiccano le fiamme, è la stagione secca: gli incendi sono già 750, gli ettari di terreno bruciato 2.600, gli ordigni sono precipitati anche vicino alle case.

Così un’arma quasi primitiva sta complicando le scelte strategiche dei comandanti israeliani che non riescono ancora a trovare la soluzione per fermare questi rudimentali palloni aerostatici. Al punto che Gadi Eisenkot, il capo di Stato maggiore, ha dovuto respingere le pressioni di Naftali Bennett: il ministro dell’Educazione a capo del partito dei coloni gli ha chiesto di eliminare i «terroristi degli aquiloni». Il generale — in un confronto durante il consiglio di sicurezza riportato dai giornali locali — si è rifiutato «di sparare a bambini e ragazzi: è la risposta sbagliata da un punto di vista morale e operativo».

Resta per lui l’urgenza di riuscire a trovare questa risposta. Il premier Benjamin Netanyahu ha visitato per la prima volta in due mesi — e per due giorni di fila — le campagne annerite dal fuoco. È andato a Sud assieme ad Avigdor Lieberman, il ministro della Difesa, e sono loro due per ora a tentare di allontanare il rischio di una guerra. Gli ufficiali sanno, però, che l’ordine potrebbe arrivare e nei giorni scorsi hanno organizzato un’esercitazione al confine con Gaza per simulare la conquista della Striscia. È stato più che altro un avvertimento per i leader di Hamas: «Non esagerate costringendoci all’attacco».

Già sabato scorso lo scontro ha raggiunto un’intensità che ha riportato gli israeliani e i palestinesi ai 59 giorni di conflitto tra luglio e agosto di quattro anni fa. L’aviazione di Tsahal ha colpito oltre 40 obiettivi, i miliziani hanno sparato almeno cento tra razzi e proiettili di mortaio, le sirene sono risuonate per tutto il giorno nelle città e nei villaggi a pochi chilometri dalla Striscia.

Sono stati i mediatori egiziani a ottenere un cessate il fuoco, che però non ha fermato gli aquiloni incendiari. Così il governo Netanyahu ha deciso di chiudere fino a domenica il valico di Kerem Shalom alla maggior parte dei materiali, compreso il carburante per far funzionare l’unica centrale elettrica di Gaza, e il Cairo ha ridotto i passaggi attraverso quello di Rafah.

Tappare gli sbocchi della Striscia verso l’esterno dovrebbe spingere i capi fondamentalisti a fermare le operazioni con i palloncini. Hamas ripete di non cercare un conflitto totale con gli israeliani, non è chiaro quanto sia in grado — o davvero voglia — intervenire per fermare i responsabili dei lanci. Anche perché questi gruppi ormai si presentano come «truppe» organizzate e hanno dichiarato in un comunicato di non essere disposti a smettere: «fin quando gli israeliani non toglieranno il blocco, le nostri missioni saranno ancora più frequenti». Come è già successo nel 2014 — temono gli analisti — potrebbe scoppiare la guerra che tutti proclamano di non volere.

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