3 maggio 2018 - 19:51

«Noi, sacerdoti in mezzo agli sciiti»
Il seminario cattolico che sfida Beirut

Nel Paese dei Cedri domenica 6 maggio si vota. A sconvolgere gli equilibri il Redemptoris Mater dei neocatecumenali che apre nel quartiere Hezbollah. Prepara i missionari (anche italiani) per i luoghi dove perseguitano i cristiani. L’udienza dal Papa

di Francesco Battistini

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Ogni tanto vanno a trovarlo. «A noi sembra un eroe». Daniele è un ragazzo marchigiano di Porto San Giorgio. Aveva tutto, un giorno ha abbandonato tutto. Adesso vive in Sudan, nella brada periferia di Khartoum. A qualche chilometro dalla casa rosa e beige (c’è ancora) che un tempo ospitava Osama Bin Laden. Dove una volta si massacravano i padri comboniani. Prete in una marea di musulmani. Nel cuore d’una nazione islamica doc, che rende dura la vita alla minoranza cristiana: chi si converte, rischia la pena di morte. Con la polizia che spesso vieta di pregare, chiude le chiese, confisca i beni. Daniele fa di cognome Casturà, ma ormai è solo abuna, padre Daniele. Parroco fra le baracche d’un migliaio di rifugiati e d’una tribù nera venuta dal Sud. A Khartoum manda avanti tre scuole, ricostruisce famiglie sfasciate, unisce in matrimonio giovani che vorrebbero solo scappare. Più testimonianza, che predica: «Quando vado a trovarlo – racconta don Guillaume Bruté de Rémur, il rettore del seminario che l’ha ordinato in Libano -, guardo Daniele e vedo una fede adulta, un’evangelizzazione pratica. Noi cristiani siamo per definizione cattolici, cioè cosmopoliti. Lì, si capisce bene che cosa significhi».

Tutti i riti

Loro sono quelli che non scappano. I cristiani del Medio oriente e del Nord Africa. Che se li cacciano, restano. Che insistono a seminare. E che ora il più folle, il più coraggioso dei seminari hanno deciso di costruirlo a Eir Rumene, nella Beirut dei musulmani intransigenti, fra gli sciiti amici degli Hezbollah. Il Redemptoris Mater, proprio sulla linea del fronte Est-Ovest dove tutto cominciò, una delle più lunghe e spaventose guerre civili mediorientali fra cristiani e palestinesi. Una casa «inter-rituale» che forma missionari pronti ad adattarsi a tutte le liturgie del Medio oriente – copti, siri, maroniti, greci, armeni –, perché vadano nei posti più complicati dove i sacerdoti non ci sono più e i cristiani stanno scomparendo: il Sudan come l’Egitto, la Tunisia come la Libia, la Siria come il Libano, l’Iraq come il Golfo. Una provocazione: «A Beirut, noi stavamo nella zona straborghese e cristiana di Ashrafieh – spiega padre Guillaume -. La domanda è stata: rimanere in quel posto confortevole e sicuro, vicino al mare e a due passi dal Patriarcato e dalla Nunziatura, oppure fare questa pazzia di prendere due vecchi palazzi distrutti dalla guerra, su un cimitero profanato dagli islamici, per ristrutturarli e metterci qui? Siamo venuti qui. A fare da ponte fra musulmani e cristiani. A proporci come un punto chirurgico, di quelli che cuciono una ferita mai chiusa».

Il muro islamico

Il seminario è in costruzione, bisogna trovare ancora due milioni e mezzo di euro, ma i lavori procedono bene. E gli sciiti, all’inizio sospettosi e diffidenti, per ora accettano la novità d’una presenza cristiana nei loro territori. Domenica 6 maggio in Libano si torna a votare il nuovo Parlamento, per la prima volta dopo nove anni di democrazia congelata da attentati e da tentati golpe e da veti incrociati, e il disastro siriano è così dietro casa da trasformare in un incubo qualsiasi mutamento: anche nel Paese dei Cedri, coi cristiani al 30 per cento e per nulla intenzionati ad andarsene, la crescita demografica della popolazione sciita e sunnita sta rendendo difficile la convivenza quotidiana. Non c’è persecuzione, ma una sottile emarginazione sì. Perché l’Islam di solito tira su un muro, si compatta, teme l’assedio: «Noi non vogliamo fare i distributori di sacramenti – dice Guillaume -, né ci mettiamo in testa di fare proselitismo. Siamo qui a incarnare la nostra testimonianza. La religione è un motore sociale che porta all’accettazione dell’altro».

Da Papa Francesco

Una volta questo seminario, che si rifà al Cammino neocatecumenale fondato da Kiko Argűello, stava al Cairo. Poi s’è spostato nel Libano che Giovanni Paolo II definiva «più che un Paese, una missione»: sabato, Papa Francesco riceve Guillaume assieme al vescovo maronita di Jbeil, con una ventina di sacerdoti sparsi in tutto l’Oriente e una quindicina di seminaristi d’una decina di Paesi diversi; domenica, ospite della Fondazione Ambrosiana San Marco, il seminario di Beirut si presenta a Milano (ore 17) nell’aula magna della Basilica di San Marco. Con tutte le sue storie straordinarie, leggibili anche sul sito www.redmatlib.com: abuna Pasquale Piccoli, napoletano, che s’è fatto copto per aiutare i più poveri dei poveri al Cairo; abuna Manuel e abuna Piotr, un cileno e un polacco, anche loro in Egitto a tenere insieme i siri terrorizzati dagli attentati dell’Isis; abuna Danilo Turchino, un romano che sta coi greci cattolici; abuna Matteo Lando, piemontese, finito a riaprire una parrocchia nella Tunisia di Djerba, a poca distanza dalla Libia e dalle incursioni dei jihadisti… «Un tempo io ero un giornalista – racconta Carlo Giorgi, 49 anni, milanese, fondatore di Terre di Mezzo che per decenni ha scritto su giornali come Il Sole-24 Ore e adesso studia l’arabo, primo anno di seminario -. Dopo una crisi personale nerissima, sono arrivato a questa nuova residenza e a questa nuova vita. Un percorso unico: dalla ricerca delle notizie, mi ha portato all’unica Notizia che cercavo».

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