10 maggio 2018 - 20:51

Il nuovo leader di Hamas «Grati a Teheran ma il fronte resta a Gaza»

Il colloquio con Yahiya Sinwar che sottolinea come i palestinesi nella Striscia siano «una tigre affamata uscita dalla gabbia». Ma sul supporto all’Iran in Siria: «Sanno di non potercelo chiedere»

di Davide Frattini, inviato a Gaza

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Non ama le apparizioni in pubblico e lo dice subito: «Stare davanti alle telecamere o ai fotografi non mi piace». Perché il suo è il volto più riconoscibile per l’intelligence israeliana, eppure resta un leader oscuro perfino ai palestinesi di Gaza che in mezzo a loro l’hanno visto solo durante queste settimane di proteste.

Yahiya Sinwar ha mantenuto un profilo quasi clandestino anche dopo essere stato nominato un anno e mezzo fa il capo dei capi di Hamas nella Striscia. Ha passato un ventennio in carcere prima di essere liberato assieme ad altri 1.026 palestinesi nello scambio per il caporale Gilad Shalit: era stato condannato a quattro ergastoli per l’uccisione di due soldati di Tsahal e per essersi sbarazzato di quelli che considerava collaborazionisti, accusati di aver passato informazioni al nemico. Un ruolo di guardiano che si è costruito negli anni Ottanta, quando ha fondato la polizia interna del movimento: vuole garantirsi che il suo esercito, le Brigate Ezzedin Al Qassam, sia puro e per questo fine non accetta compromessi.

Al gruppo ristretto di giornalisti stranieri invitati a incontrarlo elargisce invece qualche concessione, i fondamentalisti sono impegnati in una campagna di pubbliche relazioni: cinque minuti di flash e foto, poi i telefonini o qualunque mezzo per registrare vengono espulsi dalla stanza. Indossa un abito grigio, la camicia blu scura, alle spalle una gigantografia della Moschea Al Aqsa a Gerusalemme, sui lati le immagini dello sceicco Yassin (fondatore di Hamas) e di Hassan Banna, l’ideologo e creatore dei Fratelli musulmani.

Sono i custodi dell’ortodossia religiosa e strategica incarnata adesso da Sinwar che parla anche di «messaggi divini» per giustificare la chiamata alle armi contro Israele. «Combattiamo per i nostri diritti» proclama e subito aggiunge che le manifestazioni «sono pacifiche, Hamas ha deciso di adottare questa forma di protesta non violenta». Cortei popolari che gli ufficiali israeliani accusano di essere una copertura per permettere ai miliziani di perpetrare attacchi.

Martedì prossimo la protesta dovrebbe raggiungere quello che il gruppo — inserito nella lista nera delle organizzazioni terroristiche da americani ed europei — considera il culmine: i palestinesi commemorano la Nakba, la catastrofe, così chiamano la creazione di Israele settant’anni fa. «Non possiamo prevedere quello che succederà, il popolo di Gaza è ormai una tigre affamata uscita dalla gabbia: a migliaia potrebbero travolgere la barriera». Quello che Sinwar può presagire — dipende dai suoi ordini — è la reazione di Hamas se i morti dovessero essere numerosi, in sei settimane 40 arabi sono stati uccisi dai tiratori scelti, sparano su chi cerca di distruggere la recinzione e infiltrarsi dall’altra parte: «Spero che non sia necessario prendere decisioni diverse e cambiare tattica». Significherebbe guerra.

È certo invece di non voler aprire con le sue truppe irregolari un nuovo fronte a sud solo per sostenere gli iraniani negli scontri attorno alla Siria: «Sanno di non potercelo chiedere in questo momento». Resta la riconoscenza verso Teheran «per averci permesso di costruire le nostre capacità». Respinge l’accusa che i milioni di dollari affluiti nelle casse di Hamas siano stati usati per riempire i depositi di armamenti invece che per riabilitare il corridoio di sabbia stretto tra Israele, l’Egitto e il Mediterraneo su cui il movimento spadroneggia dal 2007: «Abbiamo irrobustito la forza militare senza toccare un centesimo destinato agli interventi umanitari. I Paesi che hanno finanziato il nostro esercito sapevano dove sarebbero finiti i fondi».

Le Nazioni Unite calcolano che la Striscia potrebbe diventare inabitabile — tra inquinamento delle falde acquifere e collasso delle poche infrastrutture — da qui a un paio d’anni. Sinwar non vuole accettare responsabilità, accusa l’«assedio israeliano» e la politica americana («Donald Trump con la decisione di spostare l’ambasciata a Gerusalemme è il peggiore dei presidenti»). Elenca le cifre della miseria — «l’80 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà» — solo per avvertire: «Questa è una bomba a orologeria che sta per scoppiare».

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