12 maggio 2018 - 21:39

L’Iraq volta pagina dopo l’Isis
Voto senza paura all’ombra dell’Iran

Il moderato Abadi sfida l’ex premier Maliki, pro Teheran. Il rischio della frattura sunniti-sciiti

di Lorenzo Cremonesi

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Per la quarta volta dall’invasione americana del 2003, e la conseguente defenestrazione della dittatura di Saddam Hussein, gli iracheni sono tornati ieri alle urne. La grande sfida resta quella degli ultimi 15 anni: riuscirà il prossimo governo ad evitare lo scontro settario, specie tra gli sciiti (oltre il 60 per cento della popolazione) e i sunniti, sostenuti i primi dall’Iran e i secondi dall’Arabia Saudita? Un dato rassicurante è stata la calma relativa che ha caratterizzato l’afflusso alle urne accompagnato dalla netta diminuzione delle violenze interne. Conferma le nuove tendenze: nei primi quattro mesi del 2018 è stato registrato il 73 per cento in meno del numero di morti rispetto allo stesso periodo del 2017. Meno positivo pare sia stato invece il tasso dei votanti tra gli oltre 24,5 milioni di aventi diritto chiamati a designare i 329 parlamentari. Si prevedono i primi risultati entro questa sera. Ma ci vorrà tempo per conoscere il prossimo governo.

L’attuale premier in lizza per il secondo mandato, lo sciita moderato Haider al Abadi, ha incentrato la propria campagna elettorale sulla sconfitta militare di Isis l’anno scorso nelle province di nord-ovest.

Tema portante sono le immagini delle ultime battaglie estive di Mosul, dove il nuovo esercito iracheno, armato e attivamente sostenuto dai comandi americani, ha preso la rivincita dopo la clamorosa débacle subita nel giugno-luglio 2014. Allora per alcune settimane parve possibile che addirittura Baghdad potesse cadere nelle mani dei fanatici tagliagole di Abu Bakr al Baghdadi, dei volontari jihadisti stranieri e le loro cellule «dormienti» nascoste nel cuore dei quartieri sunniti della capitale. Ieri anche il leader religioso più importante dell’universo sciita iracheno, il Grande Ayatollah Ali al Sistani, è intervenuto per chiedere alla popolazione di recarsi alle urne con toni che sono letti dai più come un indiretto sostegno per Abadi.

Un secondo argomento a suo favore è stata la vittoria nel serrato braccio di ferro con la minoranza curda nelle province settentrionali. Il referendum per la scissione dall’Iraq e la creazione di un Kurdistan indipendente lo scorso settembre si è tradotto in una catastrofe per i curdi, che non sono stati in grado di fronteggiare le truppe irachene inviate subito dopo da Baghdad, specie nella zona petrolifera contesa di Kirkuk. Così, in pochi giorni hanno persino perduto larga parte di quello stato autonomo che erano riusciti a ricavarsi gradualmente dai tempi della guerra del 1991. Oltretutto le liste curde al parlamento di Baghdad rischiano ora di perdere sino a 10 dei 62 deputati attuali.

Ma è proprio la frammentazione del fronte sciita a indebolire Abadi. A lui si contrappone in particolare l’ex premier Nuri al Maliki, garantito dal sostegno diretto di Teheran e delle Hashd al Shaabi, le «Unità di Mobilitazione Popolare», che sono le milizie armate sciite radicate tra le «città sante» di Karbala e Najaf, oltreché legate a filo doppio ai Pasdaran iraniani. L’influenza iraniana prospetta scenari che ricordano quello emerso in Libano dopo il voto del 6 maggio scorso. Durante il suo mandato dal 2005 al 2014 Maliki ha metodicamente marginalizzato e perseguitato i sunniti iracheni, li ha estromessi dalla gestione dello Stato, ma anche dai quadri dell’esercito e della polizia, fomentando rabbia e frustrazione. Conseguenza diretta è stata l’adesione delle masse sunnite tra le province di Al Anbar, la regione di Tikrit (città natale di Saddam Hussein) e Mosul prima ai gruppi legati ad Al Qaeda e poi a Isis.

In una parte della popolazione affiora una concezione più laica e «super partes» dello Stato e della politica. Espressione di questa nuova tendenza è la scelta compiuta dal 44enne imam Moqtada al Sadr. Da esponente di punta del radicalismo sciita questi ha infatti deciso di allearsi con il vecchio partito comunista e incentrare la campagna elettorale contro la corruzione per la creazione di un nuovo governo di tecnocrati slegati dai vecchi partiti.

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