23 ottobre 2018 - 17:53

Carla Del Ponte: «Ai siriani serve giustizia, solo così avranno pace»

Nel suo ultimo libro «Gli impuniti» l’ex procuratrice dell’Aja racconta la sua esperienza nella commissione di inchiesta delle Nazioni Unite per i crimini di guerra in Siria

di Marta Serafini

Carla Del Ponte: «Ai siriani serve giustizia, solo così avranno pace»
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«Aspetto trepidante il giorno in cui verrà emesso un mandato di cattura contro Bashar Assad». Carla Del Ponte non si è mai arresa nella sua vita. Ed è solo grazie al suo impegno, il suo lavoro e la sua testardaggine che criminali di guerra come l’ex presidente serbo Slobodan Milosevic sono finiti alla sbarra. Ma Del Ponte, da vera «cacciatrice di serpenti» come è stata definita, sa bene anche quanto la giustizia richieda tempo per fare il suo corso. Soprattutto quella che riguarda uomini che hanno deciso di usare il loro potere per fare del male agli innocenti.

La cover de Gli Impuniti (Sperling & Kupfer)
La cover de Gli Impuniti (Sperling & Kupfer)

Così anche oggi che potrebbe godersi una meritata gloria e una meritata pace in compagnia dei nipoti, non smette di lottare per i più deboli e di denunciare. In «Gli Impuniti» (Sperling & Kupfer) che verrà presentato domani a Roma all’Associazione Stampa Estera nell’ambito del Festival della Diplomazia, Del Ponte racconta i suoi sei anni nella Commissione internazionale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani incaricata di indagare sulle violazioni dei diritti umani nella guerra civile in Siria.

«La guerra in Siria sono i raid dell’artiglieria contro le persone in fila per il pane, il fetore dei lazzaretti, le morti per cancrena, le ragazze vendute come schiave che si impiccano con i loro veli, i bambini addestrati a uccidere. Ci sono luoghi e persone che ho visto e incontrato durante questi anni in Commissione che non dimenticherò mai.- Dobbiamo andare oltre i resoconti e i rapporti. », racconta Del Ponte al Corriere della Sera. L’ex procuratrice del Tribunale internazionale dell’Aja guida per mano il lettore in una guerra complessa dal punto di vista geopolitico e che troppo spesso viene raccontata tralasciando il punto di vista delle vittime.

Molti analisti spiegano come ora che la guerra siriana sembra avviarsi ad una conclusione sia alto il rischio che la comunità internazionale finga di dimenticare quanto accaduto e non si batta per l’istituzione di un tribunale internazionale che giudichi quanto accaduto in questi sette anni di conflitto. E’ davvero così? E perché fin qui è stato impossibile avviare i procedimenti per istituire una corte ad hoc come fu per la Ex Jugoslavia o per il Ruanda?

«Non so se si possa già parlare di fine del conflitto. Ma una pace che non affronta il problema della giustizia è una pace molto fragile con poche speranze di sopravvivere. D’altro canto è evidente come l’istituzione di un Tribunale permanente sia altamente improbabile in questo momento in quanto la Russia eserciterà il suo veto all’interno del Consiglio di Sicurezza. C’è da augurarsi che dopo il raggiungimento di un accordo di pace Mosca capisca l’importanza di questo passo, anche qualora Assad rimanga alla guida del Paese. E se guardiamo a quanto accaduto nei Balcani, va ricordato come lo stesso Milosevic sia stato perseguito quando era ancora presidente. Dunque diciamo che non è impossibile. Ma per il momento è altamente improbabile anche perché non appena sarà stato sparato l’ultimo colpo, Assad aumenterà ancora il proprio potere. Ed è immaginabile un allargamento di questa guerra per procura alla Turchia e a Paesi più lontani, includendo eventualmente anche Israele»

Paesi come la Germania hanno spiccato dei mandati di cattura internazionali per figure chiave della repressione in Siria come Jamil Hassan, uno dei gerarchi di Assad accusato di crimini contro l’umanità . Come giudica questi passi?

«Sono passi appunto. Va considerato poi come i maggior responsabili, come il presidente siriano, non siano in stato d’accusa. Dunque a voler guardare il lato positivo, sono procedimenti importanti che vanno salutati con favore. Ma non sono sufficienti. Inoltre non va dimenticato anche l’altro fronte del conflitto».

Cioé?

«Oltre ai crimini commessi dal regime - che sono di varia natura e riguardano l’uso delle armi chimiche così come delle sparizioni forzata, anche l’opposizione ha violato il diritto internazionale. E sebbene lo abbia fatto in misura minore data anche una forza sul campo meno prestante è necessario lavorare anche su questo aspetto. E questo tanto più se si ha a cuore un processo di pace stabile e duraturo. Le faccio un esempio: il 7 ottobre 2013, durante un attacco a un posto di blocco del governo a Idlib: una brigata alleata del Free Syrian Army catturò un soldato dell’esercito di Assad e si rivolse a un tribunale della Sharia. Fu condannato con la seguente motivazione: «Se una persona si arrende e viene fatta prigioniera deve morire». Un combattente del Free Syrian Army a Latakia aveva ammesso davanti a noi di aver fatto parte di un gruppo che nel luglio 2012 aveva catturato cinque alawiti sulla strada per al-Haffa. Questi si arresero e confessarono di aver violentato e assassinato alcuni civili in città. Il Free Syrian Army decise di ucciderli, precisando: “Teniamo i prigionieri sunniti, giustiziamo gli alawiti” Ecco io credo che in quella frase sia contenuto il seme di un odio e di un conflitto che va oltre la geopolitica, gli eserciti e i tavoli diplomatici».

In «Gli impuniti» lei ricorda come un suo amico medico che spesso aveva prestato aiuto umanitario nelle zone di guerra vide sul Corriere della Sera una fotografia che lo toccò profondamente: un padre che piangeva, semplicemente, mentre un bambino gli accarezzava le guance bagnate. Con l’aiuto di quel medico lei ha provato a rintracciare quell’uomo. L’ha mai trovato?

«No. E ho cercato in tutti i modi. Non avevamo altri indizi oltre alla foto, che scoprimmo essere stata scattata in Grecia, in uno di quei campi profughi di cui quel Paese giustamente si vergognava. Ne portai con me una copia, che misi sotto il naso di ogni rappresentante delle Ong che incontravo; scomodai amministrazioni, chiesi ai soccorritori di verificare i loro schedari. Era come cercare il famoso ago nel pagliaio. Purtroppo alla fine dovetti comunicare a quel medico che nessuno era in grado di fornirci informazioni, e così il medico rinunciò alla ricerca. Ma è qualcosa cui non riesco a smettere di pensare. Se in questa folle guerra una persona come me cerca qualcuno interessando i livelli più alti, ma non riesce comunque a trovarlo, che possibilità hanno i parenti di rintracciare un famigliare perduto?. Le guerre sono anche queste»

Lei ha poi deciso di lasciare la Commissione anche in modo abbastanza brusco. Crede che le Nazioni Unite possano ancora giocare un ruolo per garantire alla Siria la pace?

«La comunità internazionale fa arrivare alle vittime aiuti umanitari, ma per il resto rimane a guardare in modo distaccato il massacro che sta avvenendo. Ancora una volta evitiamo di assumerci la nostra responsabilità storica. Le discussioni di Ginevra indicano purtroppo che il processo di pace è rimasto bloccato. Dev’essere sancito un cessate il fuoco che duri nel tempo. Solo così la fine della guerra corrisponderebbe alla fine dell’impunità e all’inizio della giustizia».

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