1 aprile 2019 - 11:26

A Gaza fionde e grida di rabbia:
«Torneremo»

La marcia palestinese non arriva al confine: 007 egiziani negoziano la tregua con Israele

di Davide Frattini, inviato a Gaza

A Gaza fionde e grida di rabbia: «Torneremo»
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Il capo dei capi cammina tra le auto controcorrente, la maggior parte dei manifestanti se ne sta andando, la giornata sembra finita. Yahiya Sinwar vuole salire sul colle della Regina — Malaka in arabo — per marcare con i suoi sorrisi quello che Hamas considera un successo. In abito grigio e camicia bianca, accompagnato dalle guardie del corpo, il boss fondamentalista saluta i palestinesi imbottigliati tra i carretti trainati dai muli e gli autobus messi a disposizione dalla sua organizzazione. I pendolari delle proteste ritornano a casa, erano arrivati in massa dopo le preghiere di mezzogiorno. Più di 40 mila palestinesi — stima l’esercito israeliano — dispiegati in cinque aree diverse lungo la barriera di reticolato e blocchi in cemento che li separa dall’altra parte. Chiusi le scuole e gli uffici (per chi a Gaza un lavoro ce l’ha), i negozi sbarrati, le strade deserte: il gruppo islamista che da dodici anni spadroneggia sulla Striscia ha promesso la marcia del «Milione» (di persone) e con la serrata generale vuole assicurarsi l’effetto visivo della folla che preme verso la frontiera.

Verso. Non troppo vicino. I mediatori egiziani — ufficiali dei servizi segreti — hanno negoziato fino all’ultimo perché l’anniversario delle manifestazioni non diventasse la causa di una nuova guerra tra Hamas e Israele. I leader del movimento hanno garantito che i dimostranti sarebbero rimasti a oltre 300 metri dal reticolato e hanno dispiegato gli attivisti con indosso i gilet arancioni, come vigili che devono dirigere il traffico della rabbia. I cordoni non hanno funzionato: il limite è stato superato, ma solo gruppuscoli di giovani hanno tentato di assaltare la recinzione.

I generali israeliani hanno appostato i cecchini sui terrapieni, le feritoie ben visibili, e hanno tenuto lontano la folla con lanci continui di lacrimogeni, il gas urticante sparato a raffica dai droni telecomandati. Alla fine i morti sono quattro: dall’inizio delle manifestazioni — calcola l’Onu — i palestinesi uccisi sono 195, quelli feriti dai proiettili quasi 7 mila. I ragazzini trascinano le asce nella sabbia, qualcuno raccoglie le pietre per le fionde, in molti si spintonano per riuscire a ottenere il pasto gratis distribuito da Hamas. Altri incrociano le gambe seduti per terra e partecipano al quiz organizzato da un ideologo del movimento. Le domande ruotano attorno a questa giornata, al conflitto del 1948, quando le nazioni arabe attaccarono lo Stato ebraico appena nato, la guerra che gli israeliani chiamano di Indipendenza e che i palestinesi piangono come la Nakba, la catastrofe. «La mia famiglia è originaria di Ramle — dice Abu Ahmad, ha 56 anni ed è nato a Gaza da rifugiato —. Un giorno riuscirò a tornare in quella terra che vedo oltre il muro». È lo stesso proclama minaccioso urlato dalle donne, la voce che emerge dal velo integrale: «Marceremo su Gerusalemme con un milione di martiri».

La pioggia gelida cade a scrosci, l’unico ad apprezzarla sembra essere il contadino che anche in queste ore di tensione si prende cura del campo: sta seminando l’ocra, la potrà raccogliere fra due mesi. Senza che la guerra interrompa i suoi ritmi naturali. O così sono convinti i negoziatori egiziani, che sarebbero riusciti a definire una tregua (tacita) di lungo periodo: a otto giorni dalle elezioni, il premier Benjamin Netanyahu vorrebbe evitare lo scontro totale e chiede lo stop al lancio di razzi (lunedì scorso è stata centrata una casa a Nord di Tel Aviv, 7 feriti), la fine delle incursioni palestinesi contro il confine (compresi palloncini e aquiloni armati di bottiglie incendiarie), in sostanza il ritorno alla calma relativa di un anno fa. I leader di Hamas vogliono dimostrare che i quasi duecento morti non sono stati invano, che sono riusciti ad alleggerire l’embargo imposto dagli israeliani (con il supporto egiziano).

«Andiamo a casa, stanno arrivando i soldi», sentenzia Ashraf tra stanchezza e analisi politica. Il Qatar ha promesso di ricominciare a distribuire milioni di dollari — con la benedizione israeliana — se la situazione è sotto controllo. Hamas sa di non poter più imputare la miseria solo al «nemico» israeliano.

Le proteste di due settimane fa per il rialzo dei prezzi — dal pane alle sigarette — preoccupano l’organizzazione, che ha mandato in strada i suoi sgherri a manganellare e arrestare i dimostranti. Così Sinwar ha inglobato nel discorso di ieri lo slogan che i manifestanti hanno urlato contro il suo regime: «Vogliamo vivere», ha proclamato dagli schermi della tv Al Aqsa.

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