18 aprile 2019 - 19:47

Ambiguità del rapporto Mueller: «nessuna collusione del presidente Usa ma anche nessuna assoluzione»

Le 400 pagine affermano che non ci sono prove che Trump abbia chiesto alla Russia di interferire sulle elezioni Usa del 2016. Dall’altra parte però analizza dieci episodi in cui avrebbe oltrepassato i limiti del suo potere presidenziale

di Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington

Ambiguità del rapporto Mueller: «nessuna collusione del presidente Usa ma anche nessuna assoluzione»
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Il «Rapporto Mueller» offre una conclusione secca: «Nessuna prova di collusione» tra il comitato elettorale di Donald Trump e la Russia per interferire nelle elezioni presidenziali del 2016. Ma il risultato delle indagini sull’ostruzione della giustizia è ambiguo. Ecco il passaggio più atteso del documento di circa 400 pagine, diffuso oggi, 18 aprile: «Se avessimo la certezza, dopo aver svolto un esame approfondito dei fatti, che il Presidente non abbia commesso ostruzione della giustizia, lo affermeremmo. Ma sulla base dei fatti e degli standard di legge applicabili in questo caso, non siamo in grado di raggiungere quel giudizio. Di conseguenza, da una parte questo rapporto non conclude che il Presidente abbia commesso un crimine, ma nello stesso tempo non lo assolve».

Incontri tra presidente e Fbi

Il presidente della Commissione giustizia della Camera, il democratico Jerrold Nadler, ha già chiesto al super procuratore Mueller di presentarsi a testimoniare «il più presto possibile». La pubblicazione del documento, quindi, non smorza affatto, anzi rilancia lo scontro tra il partito progressista e i repubblicani. Nel testo Mueller analizza dieci episodi per determinare le intenzioni di Donald Trump. Sono tutti noti e, tranne qualche particolare, raccontati abbondantemente nei mesi scorsi. E’ inedito, invece, il ragionamento giuridico del Super procuratore. Si parte dai tumultuosi incontri tra l’ex direttore dell’Fbi, James Comey e il presidente. A metà gennaio del 2017 si diffondono le indiscrezioni sui contatti tra il generale Micheal Flynn, appena nominato Consigliere per la sicurezza nazionale, e l’allora ambasciatore russo a Washington, Sergei Kislyak. Flynn viene costretto alle dimissioni, dopo che aveva depistato persino il vice presidente Mike Pence, minimizzando i colloqui con il diplomatico russo. Trump convoca Comey e gli chiede «di lasciar andare quel bravo ragazzo di Flynn». Poi entrano in scena tutti gli altri personaggi. L’allora ministro della Giustizia, Jeff Sessions, anche lui implicato nelle indagini, decide di «autoricusarsi», cioè di rinunciare alla supervisione dell’inchiesta. Il presidente reagisce con furia e cerca in tutti i modi di convincerlo a restare: «Diventeresti un eroe se rimessi». Ma niente da fare. E ancora: il 9 maggio 2017 Trump licenzia brutalmente Comey, spiegando con un tweet che lo ha fatto anche in relazione al Russiagate. Il 17 maggio il vice ministro Rod Rosenstein nomina Super procuratore Robert Mueller e gli affida il dossier. «E’ la fine della mia presidenza» commenta Trump, che da quel momento moltiplicherà gli sforzi per rimuovere Mueller o almeno arginarne il raggio d’azione.

Contro Hillary

Infine il Rapporto descrive i tentativi del presidente di confondere le carte, spingendo il figlio Donald Trump jr, a mentire sull’incontro organizzato alla Trump Tower il 9 giugno 2016 per ottenere «materiale compromettente» su Hillary Clinton da un’avvocata russa. Su ordine del padre, Donald jr in un primo momento sostiene che nel meeting si era parlato solo di adozioni. Stesso schema con Micheal Cohen, l’avvocato personale di Trump. Cohen viene indotto dal suo capo a sostenere che la trattativa con i russi per la costruzione di una Trump Tower a Mosca si era interrotta all’inizio della campagna elettorale, mentre era proseguita per tutto il 2016. Tutto ciò, però, è la conclusione di Mueller, non è sufficiente per incriminare il capo dello Stato, ma neanche per assolverlo totalmente. Per due motivi: la cornice legislativa assegna al presidente poteri di intervento anche sul Dipartimento di Giustizia. La linea da non superare è «un comportamento corrotto» e non ci sono prove che Trump abbia, per esempio, pagato testimoni per dichiarare il falso agli inquirenti. Secondo: Trump non ha commesso «il crimine sottostante», cioè non ha «cospirato» con i russi. E quindi verrebbe meno il suo interesse a sabotare l’inchiesta. Ma l’ostruzione alla giustizia è un reato autosufficiente, comunque punibile. Questioni di interpretazione, dunque. Su questo si prepara il secondo tempo dello scontro politico sul Russiagate. Resta da capire se l’opinione pubblica non sia già andata oltre. Trump, invece, è sicuro di aver vinto. Il suo tweet: «No collusion- No Obstruction!»

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