23 marzo 2019 - 14:23

Isis, perché la caduta dell’ultima roccaforte non segna la fine del Califfato

La perdita territoriale della costola siriana non significa, ovviamente, la sconfitta totale in quanto i militanti sono ancora presenti e tenderanno ad adattarsi a nuova realtà

di Guido Olimpio

Isis, perché la caduta dell’ultima roccaforte non segna la fine del Califfato Getty Images
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L’Isis è “morto” a Baghouz, l’Isis è vivo. La perdita territoriale della costola siriana non significa, ovviamente, la sconfitta totale in quanto i militanti sono ancora presenti e tenderanno ad adattarsi a nuova realtà. Nulla di nuovo: l’uccisione di Osama bin Laden non ha stroncato l’ideologia, ne ha solo ridotto l’impatto ed ha portato a nuove forme di jihadismo.

Primo. Lo Stato Islamico torna alla strategia “classica” di terrorismo e guerriglia. La porta avanti con metodi insurrezionali dove è in grado di farlo – aree desertiche – e si affida a cellule in quelle urbane. Sequestri, uccisioni, attentati servono a indebolire le zone liberate. E’ un percorso conosciuto dai seguaci del qaedismo. Regola che si applica alla regione siro-irachena, il cuore del primo Califfato.

Secondo. Il recente appello audio del portavoce al Muhajir contiene alcuni aspetti che possono indicare mosse future. Ha promesso ai fratelli in mano al nemico uno sforzo continuo per liberarli: gli attacchi alle prigioni erano stati un fattore importante nello sviluppo dell’Isis. Quindi ha invitato i sunniti a ribellarsi ed ha citato la situazione a Mosul, le umiliazioni che la comunità soffre quotidianamente. E’ un discorso scontato quanto si vuole, ma che si insinua nelle realtà: repressione e discriminazione attuati dagli sciiti portano nuove reclute, non sanano quelle ferite abilmente sfruttate dai terroristi.

Terzo. Il movimento dovrà comunque compensare in qualche modo il rovescio patito in Siria. Certo, la propaganda islamica spingerà sull’eroismo e il martirio, però non può nascondere quanto è avvenuto. Il controllo di porzioni di territorio era l’essenza del Califfato, oggi ne esce menomato almeno in termini di chilometri quadrati. Non va dimenticato che avere in mano città e villaggi permetteva di accogliere volontari da ogni parte del mondo. La capacità si è ridotta, ma non è scomparsa.

Quarto. Dal 2012 la fazione ha colpito in oltre 20 paesi. Le “province” lontane da Siria-Iraq sono attive: Africa occidentale, Sahel, Egitto, Libia, Asia (Afghanistan, Filippine, Indonesia, Malaysia) sono alcuni dei “fuochi” sempre accesi, qui operano i combattenti con la bandiera nera. E’ naturale attendersi un’intensificazione della lotta, anche se gli esperti sostengono che l’agenda locale prevarrà su quella globale. Scelta pragmatica per recuperare risorse sfruttando i possibili errori di regimi/governi.

Quinto. L’Occidente vive in una paura perenne di nuovi attentati marcati Isis. La minaccia è incarnata dagli ispirati in remoto e da figure ibride, ossia elementi dal profilo che incrociano passato di criminali comuni, instabilità personale e adesione – magari postuma – allo Stato Islamico. La recente retata in Assia, con undici arresti, è solo l’ultimo segnale di una presenza sempre attiva. Resta il timore per il possibile ritorno di veterani in Europa, con la loro esperienza e carichi di odio. In questi anni l’impatto dei “foreign fighters” nelle stragi nel nostro continente è stato tuttavia minore rispetto a quello di terroristi già presenti. E’ uno scenario sempre pieno di incognite e sorprese. Il passato ci aiuta a capire, ma da solo non basta per prevedere le iniziative di un nemico mutante.

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