Muferiat Kamil,
la ministra della pace

Muferiat Kamil, la ministra della pace

Muferiat Kamil sarà la «ministra della pace» nel governo di svolta guidato in Etiopia da Abiy Ahmed. È una delle dieci donne (la metà di tutta la squadra) scelte dall’ex funzionario dei servizi segreti (ma non è il Putin di Addis Abeba) che in soli sei mesi ha firmato l’accordo con l’Eritrea (mettendo fine ad una rivalità politica culminata in una tra le più assurde guerre africane), rilasciato migliaia di prigionieri, legalizzato i partiti di opposizione, invitato i politici in esilio a rientrare in patria, annunciato programmi per combattere la diseguaglianza e per privatizzare parzialmente le maggiori aziende di Stato. «Un incrocio tra Che Guevara e Emmanuel Macron», ha scritto il Financial Times.

  Del progetto di quest’uomo dall’aria tranquilla (che però ha fatto nascere il termine «Abiymania»), Muferiat è una delle colonne. La ministra della pace, infatti, avrà tra l’altro il compito di vigilare sulla sicurezza dello Stato. Lo farà con l’esperienza maturata in uno dei gruppi della complicata mappa politica del Paese, il Movimento democratico del popolo dell’Etiopia meridionale (Sepdm). Quarantasei anni, nata a Gimma, laureata in agraria, è stata la ministra più giovane (questioni femminili) nella poco luminosa era di Meles Zenawi. Nell’aprile scorso ha avuto l’incarico (mai andato in precedenza ad una donna) di presiedere il Parlamento. Lei è islamica, mentre il capo del governo, figlio di un musulmano e di una cristiana, è protestante.

  È ovvio chiedersi se la scommessa di Abiy (e di Muferiat) abbia qualche probabilità di essere vinta. Stabilizzare, creare prospettive di vita, costituisce tra l’altro l’unico modo possibile per limitare l’esodo dei dannati della terra che già negli anni Settanta fuggivano nascosti in una cassa per animali. Come Yosef in Leggere il ventodi Dinaw Mengestu, una delle voci più interessanti della narrativa contemporanea. Ma l’Etiopia (che continua a essere dilaniata da violenze di matrice etnica) ha troppe tragedie alle spalle per incoraggiare la speranza: il colonialismo, l’impero, la dittatura «rossa», le carestie, la fame, le guerre. Impossibile dimenticare. «La storia merita di essere rivista — scrive sempre Mengestu — se non per amore dei morti, almeno di noi stessi».

Fonti
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19 ottobre 2018, 20:20 - modifica il 10 giugno 2019 | 19:54

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